L’identità ferita, oltraggiata, cercata, perduta, ed infine ritrovata o definitivamente defraudata. Sono le coordinate dell’opera ultima di due scrittori abruzzesi, rappresentanti di generazioni diverse, ma accomunati profondamente dal senso di appartenenza come bisogno vitale, o anche come segno della propria dignità, significati tenuti insieme dal particolare rapporto con la propria terra d’origine, appunto l’Abruzzo. Stiamo parlando di Donatella Di Pietrantonio, ormai affermata scrittrice nazionale approdata quest’anno alle edizioni Einaudi con il romanzo L’Arminuta, vincitore del premio Campiello e del giovane scrittore Peppe Millanta che con il racconto Rukelie ha vinto il concorso Ada Merini 2017.
«Come la maggior parte dei libri - racconta Donatella Di Pietrantonio affrontando subito il tema principale della sua ultima fatica - L’Arminuta presenta diversi piani di lettura. Potrei dire che si tratta di un romanzo sull’identità, per esempio. Dal momento in cui inizia la storia la protagonista ci racconta in prima persona la sua confusione al riguardo. L’Arminuta infatti è stata ceduta ancora lattante da una famiglia indigente e numerosa a una coppia di parenti che non le hanno mai rivelato la verità sulla sua origine. Quelli che lei ha sempre creduto i suoi genitori la informano soltanto a tredici anni e le impongono, con motivazioni inconsistenti, di tornare dalla famiglia biologica.
Da un giorno all’altro la ragazzina perde i suoi punti di riferimento, gli affetti, l’appartenenza. Come afferma Michela Murgia in una recensione del libro, non puoi dire chi sei se prima non hai capito di chi sei. L’Arminuta porta su di sé lo spaesamento di un’anima divisa in due, di una provenienza scissa tra mondi radicalmente diversi, quello piccolo borghese della famiglia adottiva e quello degradato della sua prima famiglia. Solo operando una impossibile sintesi tra i due potrà sopravvivere». In Millanta il discorso sull’identità sfocia apertamente in un caso di razzismo e persecuzione.
«Il titolo del racconto, Rukelie - commenta Millanta - è il soprannome del pugile di origine sinti Johann Trollmann, una delle vittime dimenticate del Porajmos. Dopo essere diventato campione di boxe in Germania (con un modo di combattere che anticipa le movenze e lo stile di Muhammad Alì), l’onorificenza gli viene tolta dai gerarchi nazisti con la scusa che avesse pianto sul ring, cosa vietata dal regolamento. La realtà era ovviamente un’altra: uno zingaro sul tetto di Germania, durante la tanto decantata superiorità ariana, era qualcosa da scongiurare ad ogni costo. Viene costretto ad un nuovo combattimento-farsa in cui è vietato “danzare” sul ring come era nel suo stile, ma bisogna rimanere fissi al centro. Certo della sconfitta per tutte quelle limitazioni, si presenta con i capelli tinti di biondo ed il corpo cosparso di farina: il prototipo perfetto dell’ariano tanto decantato dal nazismo. Un ultimo sberleffo al potere prima dell’abisso. Dopo la sconfitta infatti viene sterilizzato e mandato in un campo di sterminio, dove morirà dopo un ultimo incontro di pugilato per la vendetta di un Kapò, riuscendo però ad infondere coraggio e speranza agli altri detenuti sinti che erano con lui».
Due storie, due identità, due percorsi. Ma cerchiamo ora di capire come i due scrittori spiegano le loro scelte tematiche, che si sono poi impegnati a seguire per un’intera opera. «L’Arminuta - commenta a tal proposito Donatella Di Pietrantonio - è anche un romanzo di formazione. L’io narrante ci presenta le vite in crescita di diversi adolescenti, lei, la sorella Adriana, il fratello Vincenzo. Li seguiamo nei loro percorsi contorti, segnati da traumi, interruzioni». Per Millanta la scelta nasce invece dalla forza drammatica del tema trattato. «E’ una storia di una potenza incredibile, che ho provato a raccontare a modo mio e che sta avendo un discreto successo.
Oltre al premio Alda Merini, si è classificato al primo posto al premio Voci Città di Abano Terme, al secondo posto al premio Città di Grottammare e al premio del Coni dedicato al Racconto sportivo, e ha ricevuto una menzione speciale al premio Inedito di Torino. Ne è stato tratto anche un monologo teatrale, che si è aggiudicato il premio Settimia Spizzichino a Roma e il secondo posto ex- aequo alla rassegna ConCorto del Teatro San Genesio di Roma». E l’Abruzzo? Quale ruolo svolge la tradizione culturale regionale nell’individuazione delle parabole esistenziali che trainano le opere di Millanta e Di Pietrantonio? Ad esempio nei precedenti romanzi di quest’ultima Mia madre è un fiume e Bella mia, soprattutto nel secondo, l’Abruzzo è protagonista, o comunque è un contesto sempre in relazione con le storie narrate. Così la scrittrice di Penne non ha dubbi nel confessare un legame profondo, ma nello stesso tempo la necessità che questo legame sia un punto di partenza, non un fine.
«Sono legata stretta al territorio - spiega Donatella Di Pietrantonio - sono legata al territorio con la forza delle radici. Naturalmente le radici danno sostegno, ma rappresentano anche un limite che può tenere fermi. La pianta deve restare ben ancorata al suolo, ma anche aprirsi con la chioma verso il cielo, il sole, il mondo. Credo comunque che l’Abruzzo mi abbia influenzata anche nello stile conciso, scolpito, essenziale come certi nostri paesaggi. Oggi questa regione luminosa e dolente riscopre un’attitudine resiliente collettiva. Cito un esempio per tutti: dopo i crolli delle aziende zootecniche dovuti alla concomitanza di scosse sismiche e della eccezionale nevicata dello scorso gennaio, gli allevatori anziani hanno messo a disposizione le loro stalle ormai vuote e ospitano le mucche sfollate di chi ha subito danni. Questo è il proverbiale Abruzzo forte e gentile». Anche per Peppe Millanta l’Abruzzo è una radice ancorata fortemente al suolo, una regione da cui senz’altro partire, ma a cui anche tornare. «Che rapporto ho con l’Abruzzo? - esclama l’autore di Rukelie - intenso, quasi spirituale oserei dire. E’ una terra aspra, piena di spigoli, forse perché troppe volte maltrattata e quindi abituata a difendersi, ma è allo stesso tempo una terra ancora capace di sorprendermi, rimasta sempre fedele a sé stessa. L’Abruzzo influisce moltissimo sulle mie scelte, sia lavorative che di vita. Amo questa terra, e pur essendo stato fuori per molti anni e pur dovendo spesso andar via per lavoro, è qui che ho le mie radici ed è qui che sto cercando di costruire il mio futuro (la Scuola Macondo ne è un esempio), perché è questo l’unico posto che sento realmente come casa. Inoltre è una terra perfetta a livello creativo, sia per i suoi paesaggi spesso irreali, sia per le sue tradizioni e le sue storie. La cultura abruzzese è infatti piena di vicende a cui attingere. Si tratta di storie splendide perché reali, fatte di carne viva, perché qui la Storia con la S maiuscola è passata di rado ma ha sempre riverberato i suoi effetti sulle persone comuni e sulle loro storie, quelle con la s minuscola, che sono le più emozionanti da raccontare.
Storie di confine perché, come diceva Flaiano, qui la gente è rimasta gente di confine. Anche se non si sa al confine di quale Stato, e soprattutto di quale tempo». Due scritture dunque profondamente diverse legate a due generazioni distanti, tuttavia in contatto, se si può considerare l’appartenenza ad una terra un elemento in comune che possa incidere anche sul modo di essere di uno scrittore. Tuttavia è indubitabile che siamo di fronte anche a due modi diversi di fare narrativa. Così densa, commovente e coinvolgente dal punto di vista degli affetti e delle relazioni interpersonali quella della Di Pietrantonio e così veemente, incalzate, da lasciare a volte senza fiato quella del giovane Millanta. Ma quali sono le predilezioni dei due scrittori? Quali le loro radici culturali e letterarie, i loro amori, i loro fari di riferimento? «Tra i miei autori preferiti - rivela Donatella Di Pietrantonio - figurano Borges, la Yourcenar di Memorie di Adriano, ma soprattutto Agota Kristof.
La Trilogia della città di K. è un’opera che continuo a rileggere, soprattutto per la forma secca ed essenziale. Ho scoperto solo a distanza di anni dalla prima lettura che l’autrice ungherese, rifugiatasi in Svizzera dopo i fatti del ’56, decise di abbandonare la sua lingua madre anche nella scrittura e di usare il francese, che però non sentì mai di possedere completamente. Si ispirava al figlio dodicenne e scriveva consultando di frequente il dizionario. Il suo stile così asciutto e definito è anche il risultato di una difficoltà, della fatica di esprimersi in una lingua straniera. Ma è un risultato altissimo». «Il primo grande amore è stato sicuramente Buzzati - confessa dalla sua Millanta, che tra l’altro è anche musicista e compositore di canzoni e leader di una band, Peppe Millanta & Balkan Bistro - Buzzati è un autore che ho provato ad imitare - con scarsi risultati - per tutta l’adolescenza. Sono rimasto poi folgorato da Boris Vian e Queneau, e successivamente mi sono immerso avidamente nella letteratura americana: Faulkner, Steinbeck e Hemingway su tutti. L’incontro più sconvolgente però l’ho avuto con Gabriel Garcia Marquez, da cui è derivata tutta la mia passione per gli autori sudamericani e per quello che viene definito “realismo magico”.
Non è un caso che abbia deciso di dedicare a lui la scuola di scrittura che ho da poco fatto nascere in Abruzzo insieme a Valentina Bonaccio, la Scuola Macondo. Però come ho già detto, intendo la narrazione in maniera molto ampia. E quindi il mio immaginario è stato influenzato da molti cantautori come De Andrè, Chico Buarque, Brassens, Joaquim Sabina, Yupanqui o Vysotsky, ma anche da autori teatrali come Tennessee Williams e Eduardo De Filippo, o ancora sceneggiatori come Cesare Zavattini, Age e Scarpelli, o registi come Fellini, Wertmuller, Tornatore e Kusturica».
Di Marco Tabellione foto Claudio Carella