E’ stato ed è oggetto di un culto, dopo la morte, che rappresenta l’esatto opposto dell’indifferenza, della non fortuna, dell’abbandono da parte del mondo editoriale quali ebbe a patire in vita; mondo editoriale da cui fu in sostanza escluso, dopo un primo esordio di successo alla fine degli Trenta. Una straniazione rispetto alla identità di scrittore veniva dal suo stesso lavoro di sceneggiatore, in quanto costretto - per procacciarsi di che vivere, come teneva a puntualizzare – a lavorare sui copioni a Hollywood, sicché a lungo il suo nome è stato associato solo a quello di film, di registi, di strutture di produzione, di set cinematografici e non al mondo al quale rivendicava invece più autenticamente di appartenere. Ma era un grande narratore, sebbene le sue coordinate sociali, economiche e culturali di provenienza, dalle quali solo in parte la scrittura lo affrancò, lo respingessero senza posa nel passato, per usare una famosa metafora di F.S.Fitzgerald, in un mondo in cui l’arte sembrava non poter trovare posto.
Nato a Denver nel 1909, John era figlio del muratore italiano Nicola Fante, originario di Torricella Peligna (Chieti), dal 1901 emigrato negli Stati Uniti con una delle grandi ondate migratorie che spopolarono l’Abruzzo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, e di Mary Capoluogo, una mite statunitense cattolica la cui famiglia era originaria della Lucania. John era il primo di quattro figli venuti al mondo in una famiglia che non era disagiata solo economicamente, lo era anche affettivamente, per la particolare figura del padre - la quale è presente, in termini critici, nei suoi romanzi e il cui funerale, col non troppo lontano nome di Nick Molise, chiude The brotherhood of the grape, La confraternita dell’uva nel passo di seguito riportato; Nicola o Nick era infatti un instabile, pur essendo un valente muratore; un post-patriarca, che dell’abruzzesità di origine aveva conservato la rocciosa forza, più che la gentilezza e l’attaccamento al proprio nucleo familiare; e la cui incombente, conflittuale presenza si percepisce un po’ dappertutto nell’opera del figlio scrittore, anche oltre il mero tratteggio del personaggio letterario che fa di lui.
John vive dunque un’infanzia poco serena, in contrapposizione alla figura paterna. Con basi economiche precarie, svolgendo disparati lavori riesce a diplomarsi. Dal natio Colorado vuole comunque evadere e lo fa appena può, a 21 anni, per trasferirsi a Los Angeles. Lì ha la fortuna di attrarre l’attenzione di un influente critico letterario, H. L. Mencken, che intuisce il talento del ragazzo e scommette su di lui, facendogli pubblicare i primi racconti sull’importante rivista The American Mercury.
I racconti piacciono a pubblico e critica e ciò salda definitivamente in John l’aspirazione a secondare la sua vocazione per la scrittura, ma con essa a poco più di vent’anni non è assolutamente in grado di mantenere nè se stesso, nè la famiglia di origine, bisognosa del suo aiuto, e che lo ha nel frattempo raggiunto in California. S’iscrive anche all’università, ma non ha tempo e forse mezzi per seguire un corso di laurea, sicché l’abbandona subito; le suggestioni letterarie che ne ricava, in particolare quelle che gli vengono dalla lettura dei classici russi, lo accompagneranno tuttavia lungamente e riecheggeranno, anche se in modo particolarissimo, nella sua produzione (“Dostoevskij mi cambiò” – scriverà – “Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo ossigenarmi, vedere orizzonti invisibili. Volevo pensare e sentirmi come lui. Volevo scrivere”).
A due aspetti della sua produzione, quale emerge sin dall’inizio, Fante rimarrà per sempre fedele. Il primo attiene alla poetica: fare della scrittura uno spaccato della vita, realistico in apparenza, fantastico e trasfigurato in realtà, nella sua articolazione più profonda. Il secondo aspetto è stilistico: la scrittura scabra e votata alla disarmonia, giocata sui dialoghi, interpersonali o interiori, anche per l’indubbia influenza della sua attività di sceneggiatore, fanno subito riconoscere una pagina di John Fante; oltre al particolare inserimento nel testo di espressioni gergali, tratte dal parlato e con una costante, coltivata ritmatura data da parole e locuzioni in lingua italiana che dell’Italia sanno poco tuttavia, per radicarsi invece saldamente nello slang italoamaericano, cioè nella babelica lingua parlata dagli emigrati di seconda generazione. Interiezioni e modi dire in italiano punteggiano infatti le sue pagine; ai lettori non familiarizzati con la nostra lingua dovevano un po’ dare l’impressione delle sicilianate alla Camilleri (che in realtà nessuno in Sicilia usa, quantomeno con la ricorrenza che hanno in Montalbano e negli altri personaggi, ma che li caratterizzano come un sigillo del loro autore). In Fante il tributo alla lingua degli avi serve soprattutto a riaffermare l’appartenenza a una collettività, quella italoamericana, non vissuta con orgoglio o con nostalgia per una patria mai vista, ma quale impareggiabile set per le vicende surreali e full of life, piene di vita, che fa vivere ai suoi personaggi che vivono in essa.
Nel 1938, a 29 anni, dopo essersi cimentato con altre narrazioni che, rifiutate dagli editori, vedranno la luce solo in seguito, arriva per John Fante l’importante tappa di un romano-rivelazione di successo. S’intitola Wait until spring, Bandini (titolo mal tradotto in italiano come Aspetta primavera, Bandini, mentre in inglese dovrebbe suonare piuttosto come Porta pazienza fino a primavera, Bandini; e non è l’unica violenza a Fante che l’editoria italiana farà, per la traduzione, ai suoi titoli e anche alla sua immagine). Un anno dopo, il successo viene bissato con Ask the dust, Chiedi alla polvere. Entrambi i romanzi appaiono talmente vocati a un trasferimento in film, che decenni dopo – quando purtroppo Fante è morto - attireranno importanti produzioni, regie e cast (Wait until spring, Bandini, verrà prodotto nel 1989 da Francis Ford Coppola e interpretato da Joe Mantenga, Faye Dunaway e Ornella Muti; Ask the dust verrà prodotto nel 2006 da Tom Cruise e interpretato da Colin Farrell, Salma Hayek, Eileen Atkins e Donald Sutherland). Non sono romanzi autobiografici, sebbene il mondo di John Fante vi sia ampiamente trasferito, a cominciare alla figura del famoso Arturo Bandini in cui la traslazione dall’autore è più diretta; sono piuttosto trasfigurazioni, metafore della sua vita e del contesto nel quale è nato o vive ed opera, dal natio Colorado alla Los Angeles di fine anni Trenta.
Ma i successivi anni, che sono quelli della Seconda Guerra Mondiale e del dopoguerra, unitamente alle accresciute responsabilità familiari (John Fante si sposa nel ’37 e avrà quattro figli), nonché ai problemi di salute che cominciano a minarlo, saranno avari di soddisfazioni per lui e anzi prodighi di delusioni. Il mondo letterario si disinteressa di lui. Fante - ferito, deluso, ombroso - se ne ritrae a sua volta e non pubblica sino al ’52, quando senza successo esce Full of life, da noi tradotto come Una vita piena. Occorrerà un endorcement particolarissimo, operato sulla propria casa editrice Black Sparrow del famoso autore maudit Charles Bukowski (il quale proclamerà d’aver casualmente scoperto e trovato in Fante il più grande, pur se obliato, scrittore del suo tempo), perché le sue opere vengano pubblicate o ripubblicate, quando peraltro Fante, ormai gravemente malato di diabete e amputato di entrambe le gambe, si avvia alla fine della vita. In questa fase finale, prima anche la cecità lo ghermisca, compone La Confraternita dell’Uva (titolo originario, dagli echi steinbeckiani, cui il traduttore italiano ha voluto sostituire quello, sbagliato e depistante, di Confraternita del Chianti); e infine, ormai cieco, è costretto a dettare alla moglie l’ultima opera, nelle intenzioni mirata a concludere il trittico (le cui prime due parti datano oramai a mezzo secolo prima), dell’alter ego Arturo Bandini, Dreams from Bunker Hill, I sogni di Bunker Hill . E’ il nome di una zona di Los Angeles in cui, chiudendosi in una misera stanzetta, decenni prima avevano visto la luce i suoi primi lavori di narrativa e di sceneggiatura; e dove dal 2010 una strada e una piazza gli sono state intitolate. John Fante si spegne nel 1983 in una clinica di Woodland Hills, sobborgo di Los Angeles.
L’ironia e il senso del paradosso nelle avversità che caratterizzano la sua scrittura continuano ad accompagnarlo anche da morto nelle vicende italiane dei suoi libri. Ormai Fante è un nome di culto e si pubblicano o ripubblicano con notevole risonanza anche altre sue opere, incomplete persino come 1933, o ci si interessa alla sua produzione minore o non letteraria. Einaudi pubblica, due anni fa, l’epistolario di Fante ma in copertina, per un clamoroso errore, mette la foto di un’altra persona, sicchè, subissata da
segnalazioni, la casa editrice dello Struzzo è costretta ad ammetterlo e a scusarsene sui social. Sembra una vicenda alla Arturo Bandini; la quale rende, della sabauda casa e della sua filiera di controllo editoriale, un’atmosfera grottesca, singolarmente intonata al mondo di John Fante.
Dal 2006 a Torricella Peligna (Ch), paese d’origine della famiglia Fante, si svolge il festival intitolato Il dio di mio padre a cui sono intervenuti anche i tre figli di John: Dan, Victoria e Jim. Dan Fante, nipote del mitico patriarca Nick da lì emigrato oltre un secolo fa, è stato più volte intervistato dai media e chiamato a offrire contributi sulla figura del padre John; si è spento due anni fa;
In una lettera del 1974, suo padre definiva La Confraternita dell’uva “una storia di quattro italiani vecchi e ubriaconi”, con protagonista il muratore in pensione Nick Molise, in cui – come si è detto sopra - viene presentata una (pur letteraria) trasfigurazione della reale figura del padre dell’autore, del suo mestiere e della sua famiglia.
Le vicende di incomprensioni, attriti o conflitti nel libro si allargano ai due figli e alla moglie, ben consapevoli di quanto sia pesata la figura di Nick nelle loro esistenze e che ritroviamo in queste pagine finali della Confraternita, in cui il senso di ufficiale accompagnamento del capofamiglia all’ultima dimora non è disgiunto da un deciso sollievo per averlo lì alloggiato.
“Mi ha sempre dato un sacco di preoccupazioni, fin dal giorno che ci siamo sposati” - dice la madre ai figli, uscendo dal cimitero – “Non sapevo mai dove fosse, cosa stava facendo e con chi stava, non mi diceva mai niente. Ogni sera mi chiedevo se sarebbe tornato a casa. E ora è finita. Non mi devo più preoccupare. So dov’è”. Si profila quella tavolata postfuneralizia che a Torricella Peligna, come in altre parti dell’Abruzzo, si chiama cònsolo. “Ho comprato una coscia d’agnello” - continua la madre (e con queste parole si chiude il romanzo) – “Faremo una bella cenetta. Tutta la famiglia. Tengo pure le patate novelle”.
Nota introduttiva di Giovanni D’Alessandro *
*Scrittore abruzzese, ha pubblicato con Donzelli Se un Dio pietoso (romanzo storico a sfondo metafisico ambientato a Sulmona ai primi del 1700), finalista al “Viareggio”; nel 2004 con Mondadori I fuochi dei kelt (rivisitazione della guerra gallica attraverso gli occhi di un giovane auriga gallo, o kelt); a fine 2006 con Rizzoli La puttana del tedesco (una storia d’amore, ambientata in Abruzzo nel 1943-44 durante l’occupazione tedesca, tra una donna italiana e un soldato della Wehrmacht); nel 2008 con San Paolo il libro di racconti Il guardiano dei giardini del cielo; nel 2011 con San Paolo Soli; Nel 2013 La tana dell’odio (storia d’amore ambientata nell’attuale Bosnia-Erzegovina, sullo sfondo della guerra del ’92-’95). Autore di saggi, si interessa di letteratura anglosassone, di storia dell’arte e collabora con vari quotidiani e riviste nazionali.
JOHN FANTE “La confraternita dell’uva” ultimi capitoli
Di John Fante una cosa può dirsi con sicurezza, che rappresenta un caso a sé nel panorama della scrittura del Novecento. Non appartiene a una corrente letteraria, di quelle pur vaste e impetuose affermatesi, da fine Ottocento, negli Stati Uniti dove nacque e visse,. Non ha epigoni, non ha continuatori della sua particolarissima narrativa.