Tutti lo riconoscevano dalla voce, ora anche dalla sua immagine, e non solo a Pescara dove è stato premiato con il Ciattè d’oro, la massima benemerenza civica. Roberto Pedicini, doppiatore, attore di cinema e tv, e conduttore di successo in Radio freccia, emittente radiotelevisiva del gruppo RTL 102.5 dedicata alla musica rock. «Vivo nel presente, ma con il mio passato. La mia avventura iniziò quando avevo 15 anni a Pescara, con Gianni Lussoso, che mi concesse uno spazio su Radio 7giorni7. Era un programma di musica country rockwestern. Credo fosse una delle prime radio private italiane, era il 1978.
Poi sono passato anche ad altre emittenti, finché la professione del doppiatore non mi ha assorbito completamente. Il nome della radio è quello del film di Ligabue che racconta l’epopea delle prime radio libere in Italia ma il progetto prende il via da un’altra “connection” cinematografica, quella di We Love Radio Rock: un bellissimo film inglese che narra la vicenda delle radio pirata, che trasmettevano rock’n’roll negli anni ‘60 da pescherecci e barconi al largo delle coste britanniche perché fuorilegge sulla terraferma. Lorenzo Suraci, l’editore, ha deciso il nome dell’emittente dopo un sondaggio, ma si era innamorato del film con Philip Seymour Hoffman, e voleva fare proprio quel tipo di radio, dove ognuno portava una proposta e poteva realizzarla. Infatti ci ha dato carta bianca nella costruzione di un palinsesto che prevede un programma ogni due ore, e alla programmazione partecipano anche nomi importanti come Federico Zampaglione, Paola Turci, Enrico Ruggeri, ma anche molti giovani che amano la radio e la vedono come un mezzo moderno». E il tuo ruolo qual è? «Ho sposato il progetto proprio perché mi dava la possibilità di tornare alla musica, una passione mai sopita. Da tre anni mi sono rimesso a studiare come attore, partecipo a un laboratorio di recitazione, per esplorare a 360º il mondo nel quale ho avuto successo. Ho sempre desiderato fare il doppiatore, non è mai stata una scelta di ripiego rispetto al mestiere dell’attore. Da ragazzo ero timido e avevo problemi a mostrarmi in pubblico e il doppiaggio mi consentiva di mettere in gioco le mie capacità attoriali senza farmi vedere». Ma la radio non l’hai abbandonata completamente.
«Ho avuto la fortuna di dare vita al personaggio di Jack Folla con Alcatraz di Diego Cugia su Radio2, dove c’erano autori e testi scritti, quindi un tipo di lavoro decisamente più attoriale, il personaggio doveva apparire come uno che parlasse a braccio ma in realtà leggevo 20-22 pagine di testi, non c’era nulla di improvvisato. Poi, 15 anni dopo, mi dicono “Roberto, ti va di fare un programma in radio?” e io mi sono detto: cazzo, che paura! Due ore al giorno, in diretta, dal lunedì al giovedì, e che gli racconto? Così mi sono inventato un personaggio, Bob (come Roberto) Revenant (il redivivo, dopo una vita trascorsa lontano dalla radio). E mi sono immaginato un contenitore nel quale infilare tutte le tematiche che mi piacciono, che ho chiamato “Arca delle arti e del libero pensiero”.
Beninteso, si tratta di un programma di intrattenimento, niente psicanalisi o filosofia, nel quale parlo con gli ascoltatori di un tema che lancio di volta in volta. Ho parlato di erotismo, di fiducia, dei sette peccati capitali, dell’approccio che si può avere nei confronti del lavoro o della vita, così come di alimentazione o della pena di morte. Tutti argomenti che riguardano i rapporti umani, trattati con leggerezza. Le persone ascoltano, scrivono, telefonano; e per far sì che gli ascoltatori interagiscano bisogna creare empatia». Come fai a creare empatia, a suscitare interesse, solo con la voce? «Mettendo in gioco le mie capacità di attore, o meglio le cose che ho appreso durante il percorso di studio che sto facendo in questi anni». Parliamo della tua voce, che Diego Cugia definiva “stracciamutande”. Qual è davvero la tua voce? «Nella mia carriera ho interpretato ruoli diversissimi tra loro, dando voce a personaggi grotteschi, comici, strampalati, sempre ai margini, spesso ambigui.
Oggi invece ho abbandonato completamente l’ambiguità, perché l’attore deve essere diretto. Deve saper ascoltare, deve provare un sentimento e rimandarlo, e se sei ambiguo non riesci a restituire quel sentimento. Puoi piacere, ma è una captatio benevolentiae, non c’è sincerità; e solo se sei sincero e diretto crei empatia. Per esempio Kevin Spacey, che è l’attore al quale ho prestato più spesso la voce, interpreta quasi sempre ruoli molto ambigui, e in questa esperienza radiofonica ho dovuto abbandonare tutta questa ambiguità per evitare di attirare solo un certo tipo di persone. La sincerità è la chiave del successo, in radio. La voce, nel mio caso, è “bella”, ma non può essere quello su cui far leva per attirare pubblico, per creare l’empatia necessaria. Per capirci, un bell’attore come Brad Pitt non fa mai leva solo sulla sua faccia, cerca di arrivare al pubblico con altre cose, perché la faccia c’è già. Dirò di più: se Brad Pitt si atteggiasse a bello, sarebbe brutto. E se io in questo momento atteggiassi la mia voce, la modulassi per ottenere un consenso, non sarebbe più “bella”, sarebbe finta». La tua voce è bella, ma anche tu sei invecchiato bene. «Oltre alla radio, il lavoro dell’attore è quello che mi piace di più. Adoro recitare, e sono sicuro che in questo settore le raccomandazioni non servano: se sei bravo lasci il segno. Magari a un provino puoi essere scartato, e al posto tuo viene preso uno più bravo (ci sta), o più adatto di te a quel ruolo (e ci sta), o uno che è raccomandato (e ci sta molto meno).
Ma se sei bravo lasci un rimpianto al regista, che si ricorderà di te e ti sceglierà appena possibile. Io voglio lasciare il segno, ma non ci riesco ancora perché sono un perfezionista. E infatti sono arrivato in finale a due provini, uno per la serie tv Gomorra e uno per Suburra, e sono sicuro che avrei potuto giocarmela meglio, ma essendo un maledetto Capricorno ho tutta una serie di paletti miei che mi impediscono di dare il massimo. E poi c’è il fattore memoria, un muscolo che non alleno da trentacinque anni avendo passato questo tempo a leggere davanti a un microfono. Con la voce mi sento padrone di me stesso, mi sento libero e posso dare spazio alla creatività, il corpo deve ancora lavorare molto per permettermi di raggiungere il livello di libertà che ho raggiunto con la voce. E proprio per questo ho preso molto seriamente il lavoro a Radiofreccia, perché mi permette di fare un lavoro da attore, tutto basato sull’improvvisazione. Nel frattempo continui a dare la tua voce ai soliti grandi attori, che spesso ti assomigliano. Penso a Javier Bardem, di cui è uscito a settembre un nuovo film: “la madre“. «No, non sono gli attori che mi assomigliano, sono io che finisco per assomigliare a loro. Quando mi dedico al doppiaggio di un film vivo le loro emozioni a tal punto che quei personaggi mi entrano dentro, li indosso come una seconda pelle, e forse è ciò che mi ha garantito il successo in questo mestiere che di “arte” ne ha poca, essendo poco lo spazio creativo che ci viene concesso».
Dal Tom Hulce di Amadeus al Kevin Spacey di House of Cards, passando per il Jim Carrey di Truman Show e il Ralph Fiennes di Schindler’s List. Qual è il personaggio che hai amato? «È una domanda alla quale non riesco a rispondere, malgrado mi sia stata posta spesso in tutti questi anni. La verità è che fin dal primo film che ho doppiato, ovvero Rusty il Selvaggio (in cui ho dato la voce italiana al Motorcycle Boy di Mickey Rourke), mi sono sempre innamorato dei film e degli attori che interpretavo. Quindi non riesco a scegliere, anche se uno dei miei preferiti è senz’altro Bardem. È un mostro, non fa mai due volte lo stesso ruolo, ogni volta dà vita a un personaggio diverso dai precedenti. Poi lui è uno che piace alle donne, eppure riesce ad essere il contrario di sé stesso, come in Non è un paese per vecchi o in Skyfall. Ricordo di averci parlato, con Bardem, quando venne a Venezia per la presentazione di Mare Dentro.
Mi fece uno scherzo telefonico, con la complicità di Andrea Occhipinti che distribuiva il film con la sua Lucky Red. Per doppiarlo (il suo personaggio resta paralizzato dopo un incidente e recita praticamente per tutto il film sdraiato su un letto d’ospedale, con un filo di voce che manca quasi completamente di bassi) misi due sedie davanti alla postazione, sulle quali mi sdraiavo anche io tenendo la testa girata da un lato e senza muovere un muscolo. Una sorta di metodo Stanislawskij applicato al doppiaggio, e queste sono cose che non te le insegna nessuno, le vai a pescare nel tuo bagaglio culturale, nel tuo entusiasmo, nella passione per questo lavoro. Un altro al quale sono molto legato è Ralph Fiennes, che ho doppiato in Schindler’s list. E naturalmente anche gli altri che hai citato. Ecco perché non riesco a scegliere».
E quando ti è capitato di dichiararti a qualche ragazza, che voce hai usato? «La voce dell’anima. La mia».
Foto e Testo di Claudio Carella