I ricordi della stagione infantile accendono negli occhi di Giannetta Cascella una luce particolare che fa pensare ai vividi colori di certi paesaggi di suo padre Tommaso o suo zio Michele. Attraverso le sue parole rivive la dimensione privata e familiare di una straordinaria dinastia di artisti, a cominciare dal capostipite Basilio, un uomo ottimista e pieno di entusiasmo che amava la buona tavola. «Mi è rimasto impresso nella mente il modo di mangiare il pesce che mia mamma gli preparava: il suo piatto alla fine del pasto sembrava un quadro di Morandi tanto le lische degli sgombri o delle triglie erano pulite e integre attaccate alla coda ed alla testa. Di mio padre, invece, ricordo soprattutto l’impegno metodico e appassionato nell’attività artistica. Si alzava all’alba e usciva per lavorare, amava ritrarre la Maiella. Poi verso le otto e mezza rientrava a casa, faceva colazione e s’infilava nel suo studio a dipingere e guai a sentir volare una mosca. Nessun piccolo rumore era ammesso.
D’estate, addirittura, affittava una casa sul mare e ci mandava via, mentre lui restava nello studio a lavorare. Faceva anche lunghe passeggiate a piedi e spesso la sera lui e mamma andavano al cinema. Si volevano molto bene e noi siamo cresciuti in questo ambiente sereno». Ma sfogliando questo album della memoria le pagine più care a Giannetta sono quelle vissute con i fratelli. Giornate spensierate di giochi e divertimenti vissute tutti insieme nella grande casa-laboratorio, l’attuale museo Cascella in via Marconi. «Pietro era molto estroverso e portava a casa sempre cani, gatti, uccelli, rane, lucertole, aveva una gran dimestichezza con questi animaletti. Andrea invece era più introverso e aveva addomesticato un falchetto dal quale non si staccava mai. A me aveva insegnato a fare delle piccole tartarughe: due palline con la creta, una per il corpo e una per la testa, poi le zampe e la coda e alla fine con uno stecchino decoravo il guscio. Pietro una volta mi fece anche mettere le tartarughine nel presepe che aveva allestito. Eravamo molto creativi e i giocattoli ce li inventavamo noi. Ad esempio mettevamo dei chiodi sulle pareti e tramite un sistema di corde costruivamo delle teleferiche con le scatoline di legno dei fiammiferi. Un altro gioco che ci piaceva molto era quando mio padre doveva realizzare degli affreschi e ci dava da bucherellare le grandi carte lungo i contorni. Ci sentivamo i suoi assistenti ed era sempre una gara a chi faceva prima. Noi figli eravamo molto affiatati, Andrea era più solitario, si notava la differenza di età, era schivo, taciturno mentre Pietro era di tutt’altra pasta, era vivace, allegro, ci coinvolgeva tutti e con lui avevo un legame speciale che è durato nel tempo. Faceva però anche molti dispetti, una volta ricordo che avevo trovato un piccolo civettino che stava sempre sulla mia spalla e una sera a tavola disse: «so io come nutrire e far crescere questo animaletto» gli diede un pezzetto di prosciutto, insieme a del vino rosso nel quale aveva sciolto anche un cucchiaino di magnesia che mio padre era solito prendere per digerire.
Chiaramente il mattino seguente l’uccellino era stecchito». Nell’universo familiare di Giannetta Cascella altre figure hanno lasciato una traccia affettiva e intellettuale importante. Fra queste la nonna Mimmi che era belga ed aveva vissuto a Parigi. Impossibile dimenticare il suono della sua voce quando in francese raccontava dei giorni parigini e dei suoi incontri con gli artisti. Quando i genitori partivano, nonna Mimmi si occupava dei ragazzi ed era anche un’ottima cuoca. «Il suo era un menù tutto francese, con il “grande bollito” che era un piatto veramente di lusso, o con il “pain perdù” di cui ho sempre ignorato la preparazione, e tante altre cose buone e particolari. Certe volte invece chiedeva ad Andrea di pensare al menù, e lui ci faceva mangiare solo spinaci. Pietro era ben più fantasioso, come anche le sorelle. Poi era un festa quando veniva lo zio Michele che era sempre molto allegro e portava il panettone. Le zie anche erano due belle persone, insegnavano a Guardiagrele. Marianna era una poetessa, sia lei che zio Giovacchino avevano un candore disarmante. Insomma l’atmosfera era così piena d’affetto che il fatto di avere pochi soldi era assolutamente secondario. D’altra parte mia madre diceva sempre che aver sposato un’artista significava affrontare anche delle difficoltà. E questo aveva un peso sia sul piano economico che su quello della considerazione sociale. All’epoca c’era un particolare concetto di artista, nel senso che i miei amici e compagni di scuola erano figli del marinaio, del medico o dell’ingegnere ma nessuno era figlio di un pittore. L’arte come mestiere poteva apparire poco più che un gioco ma per noi era una cosa molto seria, un lavoro impegnativo.
Era il lavoro dei miei genitori, poi divenne anche quello dei miei fratelli. Io invece ero un somaro in disegno, forse perché avevo un professore che amava molto il disegno geometrico. Mi piaceva la musica come mia madre che era diplomata in pianoforte, amava Tosti e le canzoni napoletane». I ragazzi di casa Cascella non “vestivano alla marinara”, era la madre ad occuparsi dell’abbigliamento facendo pullover, sciarpe e aggiustando i vestiti sempre con molta creatività. Qualche volta riutilizzava anche gli abiti indossati dalla figlia di una sua carissima amica, erano quasi sempre rossi in diverse tonalità; un colore che Giannetta ha detestato per lunghissimo tempo. «Mi ricordo un cappottino rosso con dei quadratini bianchi come pezzetti di lardo e un abitino bordeaux che mia madre mi fece indossare per il saggio di arpa al conservatorio, dopo averlo arricchito con un colletto di pizzo. Noi ragazzi, poi, non curavamo la nostra immagine: Andrea e Pietro avevano sempre la testa rasata. A me invece la nonna acconciava i capelli con le trecce strettissime. Non avevamo mai un aspetto scomposto ma non eravamo certo considerati belli: era difficile immaginare che Andrea sarebbe diventato un uomo elegantissimo e di grande stile, tanto che fece anche da modello indossando gli abiti del suo amico Missoni.
D’estate quando andavamo nella casa al mare stavamo quasi sempre in costume e qualche volta mi sono addirittura addormentata col costume da bagno. Eravamo sempre scalzi e ci vestivamo solo se si doveva tornare a Pescara per qualche motivo. Poi è scoppiata la guerra e con essa è finita la nostra giovinezza. Andrea è partito per fare il militare e da allora non abbiamo avuto più sue notizie. Dopo tanto tempo è arrivata una cartolina da una nostra cugina, che abitava sul lago d’Orta, diceva “Andreina sta bene” e così abbiamo capito che si era unito ai partigiani; aveva 21 anni.
E’ stato comandante della Brigata Garibaldi, un partigiano valoroso tanto da ricevere la cittadinanza onoraria della Val d’Ossola. Finita la guerra, un bel giorno, all’improvviso, ci siamo trovati davanti Andrea che con assoluta tranquillità ci chiese solo se la mamma poteva preparare una cenetta di pesce. Negli anni successivi Andrea non ha mai raccontato nulla della sua esperienza di guerra». Anche quando le loro strade si sono divise, Giannetta Cascella ha continuato a seguire con passione i percorsi artistici dei suoi fratelli tanto diversi quanto lo sono sempre stati i loro caratteri. Ma una grande opera è nata dalla loro collaborazione, nei primi anni del loro lavoro artistico: il monumento ad Auschwitz. Insieme lo hanno progettato per partecipare e vincere il concorso internazionale per la realizzazione di un monumento storico.
Una grande opera, proprio come quelle di cui parlavano nonno Basilio e papà Tommaso quando lei era bambina.
Fabrizio Masciangioli