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Connie Strizzi

Connie Strizzi

Coraggio e paura, profondità e frivolezza: l'infinita alternanza dei sentimenti in una pittura dalle forti connotazioni psicoanalitiche

di Fabrizio Gentile

Connie StrizziI riccioli biondi che le contornano il viso ricordano le volute dei suoi disegni, fitte trame colorate che rivelano (o nascondono) forme vaghe, spesso riconducibili a figure femminili. Quella di Connie Strizzi è una pittura che rispecchia completamente la sua personalità, caratterizzata da forti contraddizioni, da una continua lotta tra gli opposti, tra punti e linee, tra colore e monocromia, tra pieno e vuoto. «Mia madre è stata sempre il mio critico più severo, a volte mi capitava di dover nascondere dei lavori perché diceva che le mettevano ansia. Va detto che ho cominciato col figurativo, che resta la mia base anche per i lavori attuali. Alcune opere, a guardarle bene, evocano figure che a volte, malgrado i colori vivaci e il tratto delicato, sono tutt’altro che rassicuranti».

Ci sono delle cose più vaghe e alcune più definite. Ti piace più il vuoto o il pieno?

«Viviamo in una società satura di immagini. Io ho paura del vuoto (una sorta di vuoto ancestrale che si è attenuato solo con la nascita di mia figlia Alice) ma allo stesso tempo ne ho bisogno come spazio creativo. La mia casa-studio è dominata da un caos razionale, spazi ampi definiti, essenziali. Ho bisogno di un ambiente neutro per poi riempirlo con le mie immagini».

Come è cambiato il tuo lavoro rispetto agli inizi?

«Credo che quello che faccio oggi sia la naturale evoluzione di ciò che dipingevo in passato. Ho una predilezione per la figura femminile, che prima era spesso avvolta in panni e drappeggi. Oggi si può dire che l’obiettivo sia puntato solo su quei segni che un tempo formavano i drappi. La figura ora è sedimentata, nascosta; non è detto che prima o poi non riemerga dalla trama del segno».

Ma sai dove ti sta portando questa strada?

«Certamente no, e penso che il bello sia proprio questo: è l’unico vuoto/ignoto che non mi spaventa, anzi mi stimola. Cavalco l’onda emotiva del momento, con uno sguardo al passato poiché penso che in ogni opera presente ci sia l’embrione dell’opera futura. Ogni lavoro in sé racchiude la propria madre (il passato) e la propria figlia (il futuro). Tanto per rimanere in ambito femminile».

La tua pittura è emotiva, fantasiosa, apparentemente “frivola”, ma per realizzarla ti circondi di serietà, di linee e di razionalismi.

«La razionalità è un’arma per contenere le paure. Io ne ho tantissime – paure ancestrali che solo un occhio attento riesce a cogliere. Qualcuno mi ha detto “parli di mostri con il sorriso”, e anche questa è una strada che approfondirò in futuro. Ho una sensibilità particolarissima alla luce e sono meteoropatica: il tempo grigio mi deprime, vorrei vivere in un’eterna primavera. Se potessi, mi trasferirei a Fuerte Ventura: paesaggi lunari e luce meravigliosa».

E cosa porteresti con te?

«La mia famiglia, naturalmente. Io credo molto nella famiglia. E il mio taccuino, sul quale prendono forma le idee. È l’origine del processo creativo che mi porta a realizzare un’opera».

Chi sono i tuoi modelli di riferimento?

«Senz’altro Unica Zürn, un’artista tedesca i cui lavori mi hanno particolarmente ispirata per il segno, l’apparente caos, per il moto creativo che si percepisce osservando la sua folle, geniale opera. Un’arte, la sua, che mi fa pensare anche alla solitudine».

Hai paura di restare sola?

«Penso che sia la paura che ognuno di noi si porta dentro. Anche se – come per il vuoto– nel mio caso ho bisogno di solitudine per coccolarmi, per riflettere su me stessa. Parafrasando Bob e Roberta Smith, due artisti inglesi, “I do my damn art”».

Ma come concili quest’indole solitaria e le tue paure con l’aspetto mondano della vita artistica?

«È di vitale importanza essere informata su cosa accade nel mondo dell’arte contemporanea ma partecipo a pochissime mostre. Le personali le trovo particolarmente stressanti, è un mettersi a nudo quasi imbarazzante. Mi piace moltissimo, invece, mostrare i miei lavori alle persone a me vicine, soprattutto ai miei “ragazzi” del centro anziani dove lavoro. Mi piace creare immagini che alludono a qualcosa ma il cui senso non appare evidente, quindi spesso facciamo una sorta di gioco. Ed è bello sentirli parlare di ciò che vedono nei miei lavori. Non è forse questa la magia dell’arte?»

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