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Sarà Pescara

Speciale Architettura
La città e le possibili strategie urbane: un dibattito aperto

Massimo PalladiniMassimo Palladini,

Presidente dell'Ordine degli Architetti della Provincia di Pescara

«La crisi che viviamo è senza precedenti, ma al suo interno c’è una crisi della città, di Pescara e del suo territorio che allarma ed accresce il disagio di chi ci vive e lavora, di chi ce l’ha a cuore: tra questi, i progettisti lo avvertono acutamente. Da noi il livello delle architetture sta crescendo e ciò ha prodotto anche alcune ottime realizzazioni; esse, però, faticano ad esprimere il senso della trasformazione nel quadro generale che c’è, in assenza di precise strategie urbane». A parlare è Massimo Palladini, presidente dell’Ordine degli Architetti, che chiarisce subito le ragioni di questo allarme: «Mi sembra che da tempo le amministrazioni di Pescara non esprimano una visione organica, adeguata ai mutamenti intervenuti, che sappia interpretare il suo ruolo territoriale, esaltandone identità e carattere. Dopo le impostazioni del piano Piccinato, con il sindaco Chiola, e del piano Di Sciascio, con il sindaco Mancini, portatrici di idee specifiche (la prima per una cittadina litoranea e la seconda improntata allo sviluppo degli anni ’60) si è pervenuti ad un piano che ha ormai più di vent’anni e che rinviava le principali scelte; le ultime due varianti non hanno modificato l’impianto precedente, che enunciò l’idea della città policentrica, ma non ne definì i contenuti.

Sia la passata amministrazione civica, quella guidata dall’ex sindaco Luciano D’Alfonso, che quella attuale di Luigi Albore Mascia, individuano in alcune aree strategiche, spesso interessate da processi di dismissione delle funzioni precedenti (come ad esempio, l’area di risulta della stazione centrale o quella portuale) i punti nevralgici sui quali intervenire per riqualificare l’assetto della città; allo stesso tempo però, le due visioni divergono nell’approccio e nel metodo di lavoro: più propositiva ed improntata sulla evocazione del progetto, quella dell’ex assessore Tommaso Di Biase; più indirizzata all’introduzione di nuove regole da far valere “erga omnes” quella dell’attuale assessore Marcello Antonelli. I due assessori rivendicano la validità delle loro scelte: Di Biase potendo vantare la cosiddetta “variante delle invarianti”, che ha ridotto la superficie destinata all’espansione orizzontale della città, recuperando spazi al non costruito; Antonelli dal canto suo avendo posto un freno ai cosiddetti accordi di programma, patti in deroga al piano regolatore, che, nel tempo, non tutti si sono rivelati utili alla costruzione della città pubblica. Tanto le scelte del passato quanto quelle attuali presentano però un difetto che non ha consentito di cogliere la complessità dell’attuale fase: la mancanza di una visione d’insieme che tenga conto dei diversi “sistemi” di cui si compone oggi una città come Pescara».

 

Pescara

Nel dibattito sul presente e sul futuro urbanistico della città, Palladini prosegue sottolineando la necessità di un allargamento di vedute da parte degli amministratori: «Intendo dire, al di là della polemica sulla necessità o meno di andare ad un nuovo PRG, che, se si guarda alle reti che alimentano la città in modo integrato, forse si riesce a dare più senso alle singole scelte che, oggi, appaiono casuali o improvvisate, come per molte delle proposte di cui si parla: la rete degli spazi verdi, dei servizi e della mobilità (che è diversa dalla viabilità, dovendo riguardare insieme al trasporto privato e pubblico, i parcheggi di scambio, le zone pedonali e ciclabili) sono ancora affrontate con soluzioni tecnicistiche o d’emergenza. L’ex assessore Di Biase, in verità, si è fatto portatore di diverse iniziative, la più importante delle quali ha riguardato le aree di risulta: tuttavia un difetto di comunicazione e di partecipazione ha impedito il confronto sulle proposte ed i percorsi amministrativi si sono rivelati troppo impervi, con pochi effetti sulla città, mentre le iniziative disorganiche trovavano la loro strada. La stessa realizzazione dei pochi interventi capaci di innescare nuove polarità ha dato esiti deludenti». Il riferimento va, ad esempio, alla zona del nuovo tribunale: «Un’area praticamente nata ieri, con funzioni importanti, dove sorgono anche buone architetture, ma che non riesce a farsi parte di città, perché ogni oggetto edilizio è giustapposto agli altri, proponendo più recinzioni che piazze. Oppure l’area degli istituti secondari a San Donato dove la concentrazione di scuole suggerirebbe la realizzazione di un “campus” aperto alla città, cui afferiscano una serie di servizi collaterali volti a fare di quell’area una “nuova centralità”. Questi temi non sono mai riusciti ad entrare nelle agende del governo cittadino. L’attuale assessore Marcello Antonelli lavora per il riordino delle regole; tuttavia queste prendono forza e trovano condivisione sullo sfondo di idee per la città; gli accordi di programma vanno disciplinati, ma essi sono stati una risposta, forse distorta, alle rigidità e incertezze di un Piano che ha bisogno, invece, di maggiori punti fermi e, insieme, di maggior flessibilità. È una delle ragioni dello scarso avanzamento di queste scelte politiche, che non trovano ancora un esito concreto e non riversano i loro effetti sulla città. Sullo sfondo resta l’esigenza, sempre più condivisa, di preservare, pur nella innovazione necessaria, il carattere di questa città anche nelle sue architetture storiche o del recente passato che ne fanno un unicum, costituito dall’impronta delle sue varie fasi (la città antica, quella liberty, quella novecentesca e della ricostruzione), sulle quali innestare segni contemporanei. Infine va segnalato che delineare una cornice coerente, puntare sulla riqualificazione urbana e ambientale, indicare obiettivi sui quali catalizzare anche l’investimento privato rappresenta un contributo di governo nell’attuale fase di crisi economica, nella quale i modelli passati sono improponibili e vanno offerte certezze e occasioni di investimento innovativo». Un punto critico che si rileva in entrambe le visioni è inoltre «la mancanza di un processo partecipativo sulle scelte effettuate a Palazzo di Città –prosegue Palladini– che tenga conto della cittadinanza, delle sue esigenze e, soprattutto, delle sue proposte. Questo riguarda sia l’informazione sulle scelte, ma anche il confronto tra le forze sociali e produttive ed il coinvolgimento non particolaristico di chi la città la vive. A tale scopo la categoria professionale degli architetti rivendica un ruolo consultivo primario nei confronti dell’amministrazione e ha da tempo proposto la realizzazione di un Urban Center, come avviene nelle maggiori città italiane ed europee, che faccia da tramite tra il Comune e la città, nel quale si possano discutere e migliorare le proposte e le politiche inerenti allo sviluppo urbano e che si connoterebbe quindi come uno strumento culturale fortemente democratico nella vita cittadina. Questo darebbe anche a chi normalmente non è rappresentato voce in capitolo, oltre a costituire luogo di dibattito, valutazione delle proposte, costruzione di una memoria della città». La proposta, accolta dall’amministrazione civica con l’assegnazione di alcuni locali nel complesso della vecchia stazione ferroviaria di Pescara Portanuova –oggi ristrutturata e rinnovata– per ospitare l’Urban Center, allo stato attuale non ha ancora ottenuto dal Comune (che intende coinvolgere partner istituzionali e non) gli strumenti finanziari necessari a dare inizio alle attività. «Comunque –conclude Palladini– come corposa anticipazione, il prossimo novembre ospiteremo nell’Urban Center la mostra dei progetti finalisti al premio intitolato a Gaspare Masciarelli».

 

Giuseppe GirolimettiGiuseppe Girolimetti,

Presidente dell'ANCE Abruzzo

«Pescara è una città che si regge economicamente su tre comparti: quello dell’edilizia, quello della sanità e il terziario. E forse quello dell’edilizia non costituisce solo un terzo del pacchetto. Ma questo sistema va avanti da troppo tempo, è necessario un cambiamento radicale. Per quanto sarà possibile andare avanti così?» È –sorprendentemente– Giuseppe Girolimetti, presidente regionale dell’Ance, a porre la questione. Lui che rappresenta la categoria degli industriali dell’edilizia, che vengono spesso indicati come “i cementificatori”, ma che nel bene e nel male sono coloro che hanno fatto di Pescara la grande città che è oggi. «Sono certo –dice– che il desiderio di tutti i nostri associati è quello di poter costruire, un giorno, una grande opera come un ponte o un grattacielo, magari di dirigere un cantiere con 400 persone. Certo, probabilmente è un sogno. Ma in questa città bisogna sognare, avere una visione a lungo termine, altrimenti un’opera, per grande che sia, resta legata a un momento contingente, a una necessità momentanea e probabilmente, in futuro, non sarà altro che “vecchia”». È necessario, spiega Girolimetti, un salto di qualità tanto a livello imprenditoriale che sul piano politico: «La classe dirigente deve saper progettare, deve sapere quale strada percorrere, perché i tempi per ottenere risultati sono molto lunghi. Un amministratore, così come il presidente di un’associazione, resta in carica troppo poco per vedere i risultati delle sue scelte, che spesso vengono revocate da chi gli succede. Se fosse la cittadinanza ad avere voce in capitolo gli amministratori agirebbero di conseguenza e non ci sarebbero improvvisi cambiamenti di direzione a ogni legislatura». Motivo per cui si dichiara favorevole all’istituzione dell’Urban Center promosso dal presidente degli architetti Massimo Palladini: «Credo nella necessità di restituire alla cittadinanza il diritto di valutare e discutere le scelte che oggi, invece, le vengono imposte dall’alto. Ecco perché sostengo la proposta di creare un Urban Center nel quale la cittadinanza trovi uno spazio per discutere le scelte progettuali degli amministratori ». Ai quali Girolimetti imputa un atteggiamento troppo spesso legato a visioni localistiche: «Occorre una visione allargata a tutta l’area metropolitana, che è una realtà per molti aspetti pratici ma che ha bisogno di un’ufficialità istituzionale. Servirebbe almeno un coordinamento metropolitano, che tenesse conto delle proposte edilizie di tutti i Comuni dell’area e ne valutasse l’opportunità, così da evitare il moltiplicarsi di strutture simili in un territorio in fondo ristretto, in modo da utilizzare i fondi in modo razionale. Che senso ha costituire un nuovo polo fieristico se ce ne sono già due e non godono neanche di buona salute? Perfino l’area fieristica di Bologna lamenta problemi dovuti alla concorrenza di Milano. Qui, al solito, ci si fa la guerra tra poveri». E sul fronte dell’edilizia e del salto di qualità imprenditoriale dice: «La politica non tiene conto dell’aspetto economico, che invece è fondamentale. Ci viene detto che il futuro dell’edilizia è nella ristrutturazione, e può essere vero, dato che circa l’80% del patrimonio edilizio italiano è costituito da fabbricati risalenti all’epoca della ricostruzione; ma ristrutturare costa più che edificare ex novo, e se all’impresa non vengono dati incentivi (in termini di cubatura, di sgravi fiscali, ecc.) la strada della ristrutturazione non sarà mai preferita a quella di una nuova costruzione su un terreno vergine. A questo punto, dato che lo Stato già fa la sua parte , dovrebbe intervenire il privato. Ma questo interverrebbe solo se ci fossero degli incentivi, che non possono essere diversi da un premio di cubatura. Mi spiego meglio: se devo demolire e ricostruire una palazzina di dieci appartamenti (e devo quindi restituire ai dieci proprietari i loro appartamenti nuovi) ho bisogno, per pagare le spese del lavoro, di edificare altri piani con altri appartamenti per poterci rientrare. Qualcuno il meccanismo l’ha capito, e ha proposto un premio di cubatura del 20%, ma è ancora troppo poco, non basterebbe neanche il 100%. Questo denota una mancanza di consapevolezza del lavoro dell’imprenditore edile, una caratteristica che dovrebbe essere propria di ogni buon amministratore». Quanto al problema estetico, che non è certo secondario, Girolimetti si batte perché venga salvaguardata la libertà di chi progetta: «Se non si cambia il regolamento edilizio, spesso infarcito di norme anche di difficile interpretazione, la creatività dell’architetto (e quindi anche la qualità del fabbricato) ne risentirà sempre». In sostanza, quali possono essere i punti da cui ripartire per ridisegnare la Pescara del futuro? «Senz’altro le aree dismesse come l’area di risulta, l’ex Cofa, l’ex Fonderia Camplone e altre, che potrebbero essere adibite a parcheggi di scambio, anche in prospettiva dell’operatività della nuova filovia, senza le quali altrimenti si rischia l’insuccesso; e senz’altro lo sviluppo deve passare per una migliore integrazione tra servizi, mobilità, aree verdi e –naturalmente– edilizia. Che è disposta anche a fare un salto di qualità, ma deve essere sostenuta da una progettualità politica dell’amministrazione civica che vada oltre la durata della propria legislatura. Non possiamo fare oggi scelte che domani verranno revocate, bisogna assolutamente pensare a cosa vogliamo fare di Pescara da qui ad almeno mezzo secolo per poter lavorare tutti nella stessa direzione».

Stefano TrincheseStefano Trinchese,

 

Preside della Facoltà di Lettere dell'Università "G. d'Annunzio"

«La progettazione urbanistica di Pescara non può prescindere dal ruolo che alla città si vuole attribuire. Nelle intenzioni degli amministratori recenti, però, riscontro spesso una certa elefantiasi progettuale, quando non una megalomania di prospettive». Parla da studioso il preside della Facoltà di Lettere dell’Università d’Annunzio, Stefano Trinchese. Da studioso dell’antichità e da uomo moderno, e soprattutto da cittadino pescarese. «Si pensa a fare di Pescara una “grande città”, che però nei fatti non è: difficile pensarla come una metropoli se, numeri alla mano, l’intera regione “pesa” in termini di popolazione poco più di un quartiere di Roma. L’idea, ad esempio, della cosiddetta “grande Pescara” promossa da alcuni amministratori locali e sostenuta anche da altri attori del dibattito mi sembra sia una forzatura virtuale più che un’aggregazione virtuosa, e perdipiù tende ad annullare le identità dei Comuni coinvolti (identità che meritano invece di essere mantenute e semmai valorizzate)». Quale, dunque, un’alternativa possibile? «Credo che il futuro della città possa svilupparsi lungo due assi, uno logistico e uno culturale, che fanno entrambi riferimento al passato. Penso al progetto di “città regione”, risalente agli anni Settanta, che vedeva Pescara come città-territorio, a fare da cardine tra Ortona, scalo portuale, Chieti, polo culturale e Manoppello come interscalo e quindi collegamento verso l’hinterland. Insomma quella che oggi chiameremmo un’ottica di sistema, in cui le risorse del territorio non vanno in conflitto tra loro ma entrano ciascuna con le proprie specificità a far parte di un unicum capace di valorizzarle tutte. Basti pensare al porto canale, nel quale si insabbiano le grandi navi (e per usare una metafora anche i grandi progetti): Pescara, invece che sull’essere una città portuale, dovrebbe puntare invece sulle sue peculiarità e lasciare a Ortona questo ruolo. Pescara ha un indotto economico che sicuramente Ortona non possiede, e per contro Ortona ha un porto che Pescara non avrà. E così Chieti, con la sua storia e le sue strutture (basti pensare al teatro o all’università) può essere il centro vitale della cultura di tutta l’area metropolitana. Occorre insomma unire le forze, senza omologare a tutti i costi e senza annullare le peculiarità; evitare le sovrapposizioni e amministrare in un’ottica di sistema. Ragionare in quest’ottica eviterebbe fenomeni come l’abbandono del territorio interno, che comporta conseguenze gravissime. L’urbanizzazione spinta può determinare un impoverimento dell’economia agricola, una perdita di tradizioni e di cultura che sono l’ossatura della nostra identità. E le aggregazioni forzate (determinate dall’attrazione gravitazionale che esercita la grande città) producono, parallelamente al dissesto idrogeologico, un dissesto umano e sociale: i conflitti si acuiscono, le tensioni interculturali, interetniche salgono, si ha paura dell’altro, si fa strada il concetto hobbesiano dell’homo homini lupus. Altro è invece, quando le aggregazioni nascono su una base comune, su una motivazione culturale». E quale potrebbe essere? «Qui arriviamo all’altro concetto che potrebbe essere positivo nel ripensare il ruolo di Pescara, quello di una città “porta d’Oriente”. Le iniziative che mettono in comunicazione Pescara con i Paesi dell’Est ci sono, ma finora sono state sporadiche e occasionali. Dovrebbero invece essere più continuative, in modo da attrarre finanziamenti, tanto dagli Enti locali quanto da istituti, soggetti privati, fondazioni. Anche questo ruolo ha radici nel passato: storicamente Pescara –quando altre realtà, come la stessa Roma, attraversavano periodi di crisi– accresceva la sua importanza strategica proprio per la sua posizione geografica, diventando il punto in cui la via Tiburtina idealmente proseguiva verso l’altra sponda del mare, e si ricollegava alla via Egnatia che arrivava fino a Costantinopoli. Era un’epoca in cui le strade e i fiumi erano i principali assi viari». Il fiume, un altro argomento sul quale Pescara dovrebbe interrogarsi. «Un modesto interesse verso il fiume è stato mostrato dalla precedente amministrazione provinciale, sfociato nella realizzazione di un parco fluviale; ma le iniziative, pur lodevoli, non sono poi state sostenute dall’attuale amministrazione, e oggi non disponiamo, ad esempio, di una pista ciclabile che dal centro città segua il corso del fiume fino alle zone interne, quando basta varcare i confini regionali per vedere come la viabilità ciclabile sia un argomento prioritario, da San Benedetto in su. E la mobilità sostenibile dovrebbe essere una delle caratteristiche identitarie di una città come Pescara, che ha la fortuna di trovarsi in un territorio non montuoso; il che costituirebbe un perno su cui sviluppare ogni progetto urbanistico, recuperando aree da dedicare al tempo libero, al verde pubblico, agli spazi vivibili per i bambini, ed evitando invece selve di grattacieli, traffico, inquinamento, lentezza. Si dice che Pescara sia “città veloce”, ma mi sembra che sia veloce solo nel dimenticare e nel cancellare la sua storia: è una città che si autofagocita. Ad esempio gli edifici liberty, che al di là del loro valore intrinseco architettonico potevano costituire un’immagine della città (e quindi un’attrattiva) non ci sono più, a parte qualche significativa eccezione, e altri sono in stato di completo abbandono; oppure la fortezza borbonica, anch’essa scomparsa, e che oggi sarebbe forse la più grande attrazione turistica della città. Ma tanto la conservazione del proprio passato quanto la proiezione verso il futuro comportano un cambio di mentalità, da parte dei cittadini e degli amministratori, che sono cittadini anch’essi. Occorre passare da un’ottica localistica a una allargata a sistema, per mettere in moto l’aggregazione virtuosa, invece di una disgregazione che ci impoverisce».

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