Veniamo al ruolo dell’università.
«Il problema è generale: al contrario di altri Paesi i nostri ragazzi svolgono un percorso teorico completamente svincolato da quello pratico, quindi non sanno applicare il loro bagaglio di nozioni. Questo comporta che, una volta terminata l’università, ci si ritrovi in un mondo governato da regole (peraltro vecchie e bisognose di revisione accurata) che limitano la creatività dell’architetto e gli impediscono, sostanzialmente, di poter creare il bello. E a questo si aggiunga che per vivere del proprio lavoro in una città dove ci sono 1500 architetti uno non può certo permettersi di fare lo schizzinoso…»
Quindi la colpa è dei costruttori?
«Solo entro certi limiti. Nella nostra città erano –e sono– i nostri maggiori interlocutori; qualcuno, con qualche ragione, li ha definiti speculatori. Ma anche noi architetti abbiamo le nostre responsabilità: non abbiamo saputo cogliere il “mezzo” per il nostro fine di costruire una città migliore, più vivibile e di qualità. Non prendiamoci in giro: da sempre l’architettura ha veicolato interessi. L’aspetto speculativo perciò non è da demonizzare, ma da incanalare entro limiti non soggettivi. Potevamo essere più intransigenti di fronte alle richieste più inaccettabili, comunque da noi non rifiutate, ci si poteva comportare da architetti. È un obbligo morale, di sensibilità, ove noi siamo mancati, con colpe non scaricabili ad altri».
Ma come concilia questo mea culpa con il suo lavoro?
«Non voglio assolutamente dire che bastava fare qualche bell’edificio e la situazione sarebbe stata migliore, della serie “chi si accontenta gode”; semplicemente, le cose che realizziamo non possiamo legarle esclusivamente al presente, tutto va rapportato ad un periodo più lungo, ove tutti possono “usare” le esperienze degli altri. Bisogna realizzare cose che possono resistere al passare del tempo, anche semplici, ma contenenti caratteri di sintesi, elementi di riferimento. Il mio convincimento rispetto al mio personale lavoro, ed in senso più lato alla professione dell’architetto, è che quando una attività presuppone delle alterazioni/cambiamenti del paesaggio, costruito e non, il nostro operare deve essere sapiente e meticoloso, non subalterno, non conservatore a prescindere, ma propositore ed interprete sia della contemporaneità che della storia. Avevamo la possibilità di fare, abbiamo fatto e male. Potevamo confrontarci, controllarci a vicenda e migliorare il nostro habitat, potevamo costruire il paradiso di cui parlava Rykwert e saperlo curare nel tempo, coscienti del suo bisogno continuo di attenzioni».
Qual è secondo lei la strada da percorrere per uscire da questa situazione?
«Bisogna ripartire calandosi nella realtà, avere la forza di un bagno di umiltà; riappropriamoci di noi stessi, del nostro sapere, coscienti che non possiamo più fare errori. Il tempo gira con una velocità superiore, soprattutto per i mezzi a nostra disposizione, dobbiamo ritrovare coraggio e pretendere rispetto, fare le cose semplici e razionali, collocando oggetti sapienti capaci di farsi amare non solo da chi li usa o pensa, ma da tutti quelli che vivono questi luoghi».
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