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Perdersi (e ritrovarsi) a Pescara

Architettura

Perdersi (e ritrovarsi) a Pescara

Gianni Biondillo, giallista di fama, rivolge il suo sguardo di scrittore e di architetto sul capoluogo adriatico e sulla sua conformazione urbana


di Gianni Biondillo*

Gianni BiondilloA Pescara mi perdo, tutte le volte. Non ha senso, me ne rendo conto. È una città piccola, mai avuto problemi a Roma, o New York, eppure, vengo a Pescara e mi perdo. La mia natura peripatetica quasi s’offende: ma come? Io, che ho fatto del camminare una teoria, una strategia d’indagine del territorio, vengo qui e mi perdo? Ora, non abbiate paura, poi mi ritrovo quasi subito, uso i soliti trucchi del mestiere: il mare a est, le montagne all’orizzonte, verso il tramonto, ed ecco che ritrovo la strada. Ma questo dover usare l’orografia al posto della logica insediativa urbana un po’ mi disturba. È che le città in Italia, hanno un senno, una tradizione in un certo senso prevedibile: il centro, i quartieri ottocenteschi, le periferie urbane. Ma dov’è il centro a Pescara? Certo, ora lo so, a furia di andarci, che Pescara è una città inventata, d’emblée, un regalo al Vate da parte del regime. Un po’ come Imperia, che ancora oggi fa fatica ad essere Imperia (senti che nome magniloquente!) ed è, per chi la abita o Porto Maurizio od Oneglia. Al punto che la parte fisicamente al centro del comune sembra vuota, ancora da riempire. Ecco, con Pescara è lo stesso. Il fiume non attraversa la città, come è naturale, ma la divide. Da una parte l’enorme stazione degna di una metropoli, uno spiazzo antistante esagerato, irrisolto, il passeggio di Corso Umberto, la monumentalità tronfia di tutta quell’edilizia del Ventennio, bella e impossibile, che si può vedere il Piazza Italia –che per inciso piazza, alla fine, non è, ma svincolo automobilistico– dall’altra un crocicchio di case, tre strade, che di giorno sonnecchiano e di notte esplodono di vita, e via via la Cattedrale, le magioni borghesi e giù giù la pineta (parola che subito rimbalza nelle nostre memorie scolastiche. D’Annunzio pare quasi una condanna per questa città).

A rimarcare la divisione come una ridondanza segnica, l’incomprensibile viadotto che sottolinea ancora di più la cesura. I due volti della città sembra a momenti non vogliano dialogare, ognuno si fa i fatti suoi. Nessuno attraversa a piedi i ponti che collegano le due parti. Pescara non è, secondo i canoni triti, una bella città. Eppure ci torno, tutte le volte, sempre volentieri. Perché? Non certo per quella passione malata per i monumenti grevi di Cascella, né per una edilizia diffusa mediocre, senza slanci, senza inventiva. Certo, ci torno per il paesaggio antropologico, per la gente ospitale che la abita (dimostrando quanto sia stupida l’idea che per essere una bella persona occorra vivere in una bella città), ma ci torno anche perché m’incuriosisce: mi sembra una città che non ha ancora compreso davvero il suo potenziale. Essere difforme, essere irrisolta è, in un certo senso, la sua occasione, non la sua maledizione: Pescara potrebbe, in questo senso, essere uno straordinario laboratorio di rigenerazione urbana, un modello da esportare. Ci ha provato, spesso con slanci utopici a basso impatto ambientale. Spesso fallendo. Penso alla sfortunata esperienza del monumento di Toyo Ito. Io non conosco la storia in tutte le sue declinazioni cronachistiche, ma non faccio fatica ad immaginarmela: un comitato che spinge per avere una grande firma internazionale, un sindaco –non ho la minima idea se di destra o sinistra, cambia poco– che abbraccia l’idea, le polemiche demenziali suoi quotidiani locali, una esecuzione non proprio impeccabile, le controversie sulla spesa da parte dell’opposizione – di destra o sinistra, non importa. Il teatrino italiota è sempre lo stesso. Era giusto farlo? Era sbagliato? Quanto c’è di giusto nella voglia di sprovincializzare un ambiente sonnacchioso e allo stesso tempo di sbagliato nel farlo attraverso una strategia (l’archistar che di Pescara nulla sa) di suo inevitabilmente provinciale? Quello che mi lascia interdetto è aver deciso di lasciare nascosto questo slancio utopico dietro transenne provvisorie (non c’è nulla di più eterno del provvisorio in Italia). Nascondere dietro pannelli pubblicitari l’opera crepata di Ito è un errore di comunicazione enorme. Non basta nascondere la polvere sotto il tappeto. Sembra l’incarnazione di un rimosso. Un grande artista tedesco, Joseph Beuys, intitolò una sua installazione: “mostra la tua ferita”. È da lì che occorre partire. Non nascondere ai nostri occhi le ferite, ma trasformarle in occasioni. A pensarci bene, col nuovo ponte pedonale che scavalla il fiume sulla spiaggia, ormai a tutti gli effetti una vera passeggiata urbana sui generis, l’opera di ricucitura è già iniziata. Suturare il territorio, renderlo coeso, esaltare l’incredibile patrimonio naturale del lungo mare, puntare sui giovani talenti che studiano nella facoltà di architettura. Pescara può farlo. Ne ha il talento.

*Gianni Biondillo, classe 1966, è un architetto e scrittore milanese, autore di romanzi, testi per il cinema e la televisione. La sua fama letteraria è legata al personaggio dell’ispettore di polizia Michele Ferraro. Nel 2011 ha vinto il premio Scerbanenco con il suo ultimo lavoro, I materiali del killer (Guanda, 2011). Ha partecipato a Pescara all’inaugurazione del premio di architettura “G. Masciarelli” e all’ultimo Festival delle Letterature.

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