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Antonio Lucifero

Vario ART 2012
 
Il suo mito è l’uomo dal multiforme ingegno, ma nella sua dimensione creativa non vi sono certezze.
Ecco l’artista che vuole diventare un dilettante

Antonio LuciferoNel curriculum di Antonio Lucifero balzano subito all’occhio due cose: la prima è che il suo è un percorso professionale sterminato. In 43 anni di vita, 26 dei quali passati a lavorare, ha accumulato tante esperienze da far invidia a personaggi di ben più lunga e paludata carriera. La seconda è che queste esperienze sono diverse, e lo accreditano di volta in volta come regista (teatrale, televisivo e cinematografico), come musicista, e come artista eclettico in grado di spaziare dalla videoarte alla pittura, dalla fotografia all’installazione. Ciononostante, la sua più grande ambizione è quella di diventare “un dilettante”. «Nel dilettante c’è la libertà, c’è lo sgomento dell’incertezza, del “non sapere cosa succederà”: e puoi permettertelo perchè sei un dilettante. E il dilettante non ha committenti. C’è chi sceglie di fare l’artista prestando le sue doti a una professione, ma alla fine –secondo la mia esperienza– quelle doti si corrompono, specialmente a causa della committenza, perchè tutti, oggi, si sentono legittimati a metter bocca nel tuo lavoro, anche tecnicamente. Ma lentamente sto raggiungendo il mio scopo, separare l’arte dal lavoro e fare ciò che desidero, ciò che mi dà piacere. Il che è proprio del dilettante, cioè di chi fa qualcosa “per diletto”».

Coltivi tantissimi interessi e utilizzi un gran numero di mezzi espressivi. Un eclettismo che ti accomuna al tuo illustre antenato Francesco Paolo Michetti.

«Mi accomuna a lui ma anche a tanti uomini del passato, quando non esistevano le “specializzazioni”. Per fare un esempio recente, Picasso era pittore ma anche fotografo, scultore, non aveva problemi a spaziare da un mezzo artistico a un altro. Anche Michetti, il mio bisnonno, è passato alla storia come pittore, ma era fotografo e scultore; ha scritto di astronomia; aveva una falegnameria in casa, era appassionato di meccanica, ha costruito perfino un’automobile, che si trova esposta al museo dell’auto di Torino. Le specializzazioni sono qualcosa di molto contemporaneo e spesso nascondono l’incapacità di fare altro. E purtroppo, chi fa una sola cosa difficilmente fa ricerca, che è la cosa che mi interessa di più».

Tutti i tuoi lavori “artistici” sono infatti delle sperimentazioni di volta in volta su mezzi espressivi diversi. L’opera “Ulisse scatenato”che hai Ulisse scatenatoscelto per la tua monografia è una composizione di 365 inquadrature dello stesso tratto di mare.

«Quell’opera nasce dalla considerazione della cecità: volevo evidenziare come oggi i nostri occhi siano talmente assuefatti a ciò che ci circonda da non riuscire a “vedere” veramente, siamo ciechi davanti al quotidiano. Il riferimento all’Ulisse Incatenato di Tennyson non è stata la base di partenza, è una semplice citazione. E poi ora sto cercando di uscire dalla schiavitù del testo».

Sarebbe a dire?

«Sto lavorando a un progetto basato sul Riccardo III: non un quadro, non un film, non una videoinstallazione, ma tante cose insieme, stampe, installazioni e perfino testo, ma non come significato bensì come significante quasi musicale, come se fosse una colonna sonora. In questo modo non sei più tu al servizio del testo, ma è il testo ad essere al servizio dell’opera. Vorrei che l’audiovisivo (tutto ciò che comporta il coinvolgimento di suoni e immagini) si svincolasse dalla schiavitù del testo, lo distruggesse e lo ricostruisse per creare qualcosa di completamente diverso».

La sperimentazione ha un rischio: che il mezzo prenda il sopravvento sul messaggio. Ci hai pensato?

«Certamente, ma sono giunto alla conclusione che quel che faccio è ignoto perfino a me stesso. Io non so dove mi porterà l’avventura che inizia ogni volta che comincio a dedicarmi a un nuovo progetto. Torniamo allo sgomento dell’incertezza: è il non sapere che mi affascina. Mi serve sapere cosa sto facendo, ma il mio è il punto di vista di un osservatore/creatore, in modo da poter lasciar andare la creatura e vedere che cosa diventerà. Ho perso molte delle certezze che avevo quand’ero più giovane, e anzi ora so di trovarmi in una dimensione limbica, in cui la ricerca serve solo a scoprire di volta in volta nuovi ambiti in cui non ci sono certezze. E non le voglio». F.G.

 

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