«Il maestro era molto esigente con tutti i suoi collaboratori, come con se stesso. Era instancabile nel provare e nel cercare ogni minima sfumatura della partitura, e a noi chiedeva di seguirlo nella sua maniacale ricerca della perfezione. Non ho mai capito come facesse a percepire infallibilmente infinitesimali variazioni del suono; le prime volte credevo si trattasse di un caso, ma mi dovetti poi ricredere perché compresi quanto grande fosse la sua sensibilità ai minimi particolari; era così sensibile all’aria condizionata perché il grado di umidità, che può oscillare dal 30 al 70% ed oltre, cambia l’insieme del peso della tastiera. Inoltre il cambiamento di umidità può far variare la reazione delle molle, ma anche l’aderenza della meccanica sul tavolaccio squinternando tutto il lavoro sin lì fatto e provocando una disuguaglianza che il Maestro non poteva assolutamente tollerare. In certi momenti avevo l’impressione che cercasse nel pianoforte il contatto della corda che si ottiene col clavicordo, tanto viscerale era il suo rapporto col suono». Angelo Fabbrini non parla volentieri degli esecutori con i quali ha avuto rapporti di collaborazione, e non perché non abbia aneddoti o episodi che potrebbero riempire un libro, ma per la sua naturale riservatezza e sobrietà, che lo spinge a riservarsi esclusivamente il ruolo di grande artigiano al servizio di grandi artisti. Ma come è cominciato il rapporto con la Steinway & Sons, prestigiosa casa americana che costruisce i migliori pianoforti al mondo? «Quello con la Steinway –racconta Angelo– che è un rapporto oggi consolidato da stima e amicizia, è iniziato quando ero molto giovane, e mio padre lavorava con Bechstein, la loro storica rivale. Volevo acquistare un pianoforte e mi vollero conoscere, e così incontrai il dottor Istvàn Vertès, un profondo conoscitore di musica, ma anche di lingue e culture, al quale chiesi il permesso di poter portare il pianoforte dove fossi stato chiamato. Lui, credendomi un giovane di belle speranze ma di scarse prospettive, accordò il permesso non senza una velata ironia. Ma dovettero subito mangiarsi le mani perché il mio pianoforte venne richiesto non solo in Italia, ma in Germania, in Francia, e addirittura negli Stati Uniti». Il binomio Steinway-Fabbrini è oggi indissolubile e fa della ditta la prima concessionaria ufficiale al mondo per l’acquisto di Steinway Gran Coda, record mondiale che la Casa statunitense ha voluto celebrare personalizzando il D-274, il duecentesimo Gran Coda acquistato da Angelo Fabbrini con il logo dell’artigiano e con un album fotografico che racconta la genesi del prezioso strumento passo per passo. Strumenti come gli Stradivari usati da Uto Ughi o Accardi vengono conservati in cassaforte e a temperatura controllata, ed escono solo per i grandi concerti. «Il D-274 lo conservo nel mio atelier, dal quale è uscito solo in poche grandi occasioni, ma che diversi autori sono venuti a provare appositamente qui a Pescara». Quando arrivò a Pescara tanti anni fa, il giovane Angelo aveva un sogno: metter su una fabbrica di pianoforti. Un sogno sublimato dalla “collezione Fabbrini” e rimasto chiuso in un cassetto. «Per ora, ma è ancora vivo. Quello che vorrei costruire è uno strumento completamente innovativo. Anni fa trovai anche un finanziatore, ma non mi sono sentito in grado di ripagare quella generosità con la sicurezza dell’investimento. Ma se avessi io quella possibilità finanziaria non esiterei a lanciarmi nell’impresa, fossero anche gli ultimi giorni della mia vita».