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Alessandro Gabini

Vario ART 2012

Dalla matita al basso, dal disegno alla musica:

la contaminazione come segno

 

Alessandro GabiniArtista eclettico, nasce con la matita in mano e non se ne è più separato. Almeno finché non ha scoperto altre forme espressive che hanno coinvolto i pennelli, il legno, il cartone, e da lì la performance e l’installazione. E la musica. Alessandro Gabini, in arte Gaben, a diciassette anni ha iniziato a suonare il basso e ha deciso che la sua vita sarebbe stata divisa tra questi due “strumenti”. «In Italia oggi non paga specializzarsi in un solo campo espressivo, a meno di non essere già identificati con un’attività precisa. E comunque non soddisfa me, che amo spaziare da una forma d’arte a un’altra, da un mezzo all’altro, senza fossilizzarmi, esplorando le diverse possibilità fornitemi dai diversi strumenti». L’approccio, peraltro, resta lo stesso sia che si tratti di realizzare un’opera artistica o che si tratti di scrivere una canzone. «Il difficile è solo portare avanti entrambe le cose, concentrarsi allo stesso modo sull’una e sull’altra. Per il momento, ad esempio, sono molto concentrato sulla musica, ma durante la giornata raccolgo anche gli stimoli per concepire poi il prossimo disegno o la prossima scultura. La realizzazione mi porta via poco tempo, la progettazione richiede un’attenzione maggiore. Ma alla fine il risultato deve avere una freschezza, un’immediatezza, una spontaneità insomma, che cerco di mantenere in tutto quello che faccio, nell’arte come nelle canzoni».

Sei un artista dalle molteplici sfaccettature. Una caratteristica che potremmo attribuire anche a Pescara, la tua città: capace di accogliere favorevolmente tutti gli stimoli che l’attraversano.

«L’attraversano, infatti. E di solito, come i turisti, si fermano per un po’ e poi passano oltre. Pescara non riesce a trattenere nulla se non per brevi periodi, vive tutto in modo molto passeggero. Anche dal punto di vista culturale, forse proprio perché manca di una vera identità storica, difficilmente riesce a capitalizzare le tante influenze che in un modo o nell’altro la permeano, e le lascia scorrere via. Ed è un peccato perché spesso Pescara anticipa altre province, accogliendo influenze (in genere provenienti dagli Stati Uniti, nei cui confronti noi italiani siamo molto ricettivi) che attecchiscono quel tanto che basta per aprire un negozio o due. È una città molto “modaiola”: è la sua vocazione commerciale che gli fa consumare tutto ciò che cattura».

Tu invece non sei così?

«Le influenze io le trattengo, le incamero e le metabolizzo. E poi le trasferisco necessariamente in tutte le mie espressioni artistiche, perché ormai fanno parte del mio bagaglio culturale: la street art, la cultura hip hop, le culture urbane underground. Ma sono piuttosto selettivo, non assorbo tutto come una spugna. E comunque il problema di Pescara è senz’altro un problema politico: altrimenti non si capisce perché certe cose che hanno una loro forza culturale, iniziative lodevoli come per esempio Fuori Uso, vengano cavalcate per un po’ per poi essere totalmente dimenticate».

Già, Fuori Uso. Del resto tu hai cominciato a muoverti artisticamente proprio nella galleria di Cesare Manzo.

«Era un posto in cui l’arte si viveva, gli artisti si incontravano lì e le cose nascevano anche da quegli incontri. Oggi questi spazi mancano: c’è un museo, il Colonna, che non ha molte ragioni di esistere. O l’Aurum, che è un contenitore vuoto. Intendiamoci, non parlo di queste strutture come di luoghi “brutti”, ma come spazi funzionali alla crescita artistica sono pressoché inutili. Oggi vedo molta più dispersione, ognuno lavora per sé e se vuol fare qualcosa deve attrezzarsi da solo. Un luogo che invece mantiene la caratteristica di “cenacolo” è il Museo Laboratorio di Città Sant’Angelo. Mi piacerebbe avere dei punti di riferimento dove le cose artistiche possono prendere forma, uno spazio attivo in cui si lavora e si producono eventi».

Ma questa dispersione non è frutto anche della contaminazione di cui vive oggi l’arte contemporanea?

«Temo che sia il contrario. È proprio per la mancanza di luoghi deputati che l’arte si è spostata fuori dagli spazi convenzionali. Ma il risultato è appunto quello di una dispersione di energie, di risorse, che spesso sono finalizzate alla realizzazione di una singola opera/mostra che resta purtroppo relegata a un momento e a un luogo precisi».

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