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Marco Antonecchia

Vario ART 2012


Marco Antonecchia


Si muove tra video, installazioni e disegni

e non si separa mai dalla sua bicicletta


Marco AntonecchiaMultimediale, nel senso stretto del termine, è l’aggettivo che più gli si addice. Del suo lavoro di artista, che spazia dal disegno alla pittura, dalla scultura all’installazione per trovare una sintesi nei video, il trentaseienne Marco Antonecchia dice che «È incoerente, almeno all’apparenza, ma è in questa varietà di mezzi e di tematiche che trova la sua ragione». Restare ancorato alla bidimensionalità del dipinto o del disegno non era per lui necessario, così ha cominciato ad esplorare nuovi canali espressivi. «Per anni ho dipinto, ero arrivato alla saturazione e i miei lavori perdevano di freschezza. Oggi preferisco altri mezzi, anche se il disegno non l’ho mai abbandonato». Tra gli artisti di questa nuova edizione di VarioART è l’unico ad aver seguito un percorso di studi, questo sì, coerente: liceo artistico a Pescara e poi Accademia di Belle arti a Urbino, ma quella dell’università «è stata una bella esperienza ma non la riterrei fondamentale. Il mio percorso artistico è del tutto personale, e si fonda sulla street culture, sul pop degli anni Novanta. Il lavoro con i video è invece fortemente influenzato dal mio immaginario cinematografico e visivo, che appartiene comunque a quel periodo». E naturalmente anche dalla musica, componente fondamentale della vita di Marco che ogni tanto si fa anche apprezzare dietro una consolle a mischiare dischi.

I tuoi lavori sembrano molto ragionati, nella loro semplicità. Quanto conta la progettazione nella realizzazione di un’opera?

«Tantissimo, soprattutto da quando ho cominciato a lavorare in video. Mi sono subito reso conto che per ottenere il risultato che cerco ho bisogno di studiare bene ogni aspetto del lavoro, anche perché durante la realizzazione sopravvengono problemi tecnici legati alla luce, alle condizioni atmosferiche. Il concetto invece viene subito, e generalmente non sto tanto a pensarci».

Nelle tue opere non c’è mai un riferimento preciso a un territorio, ad esdempio a quello da cui vieni e nel quale, fondamentalmente, ti muovi. Qual è il tuo rapporto con Pescara?

Pescara è molto diversa da altre città di provincia, è molto attenta e ricettiva; ma tutto resta in superficie, resta tutto molto effimero e non viene reso fruibile. E c’è molta arroganza, mentre altre province –ad esempio Ravenna, o alcune città nelle Marche– sono più umili ma riescono ad essere più concrete, sia che si tratti di musica o di arte. Qui invece si creano sempre delle sottotrame un po’ borghesi che inquinano ogni cosa positiva che prova ad attecchire. A livello istituzionale, poi, la città è culturalmente morta; e la cosa che mi rattrista di più è che è morta anche nel tessuto sociale».

Vale a dire?

«I giovani. Parlo anche dei miei coetanei, ma soprattutto dei ragazzi più giovani: non hanno più stimoli, non hanno idee. È vero che le istituzioni se ne disinteressano, ma ci sono tanti ragazzi che sembrano iperattivi e invece non hanno una coscienza che gli permetta di capire ciò che è qualitativamente valido. Questo, a mio avviso, accade perché sono cresciuti in una città nella quale da anni la parola qualità non si sa neanche più scriverla. Invece in altre province si realizzano un sacco di cose: magari si scopiazza qua e là, ma con umiltà».

Qual è il tuo desiderio nascosto?

«Vorrei realizzare una mostra dentro un cinema, riuscire a fare qualcosa di valido che possa essere proiettato su uno schermo grande».

In quale Paese ti stabiliresti definitivamente?

«In questo momento il Canada è senz’altro un luogo molto stimolante dal punto di vista artistico. Anche la California non è male: San Francisco mi piacerebbe, ma per uno che si muove in bicicletta è un po’ complicato».

Ultimo libro letto?

«Sto leggendo La conquista dell’inutile, sono i diari di Werner Herzog durante la lavorazione di Fitzcarraldo».

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