Il ragazzo, cui rivolgeva questa sua “perla di saggezza”, era Tommaso, uno dei nove figli di Gaetano, che quando il padre era costretto per impegni di lavoro ad abbandonare lo studio aveva “l’inebriante compito di rinfrescare quell’oggetto magico che era la tavolozza delle tempere, di ripulire il bicchiere con i resti di tuorlo d’uovo, usati per rafforzare il colore e renderlo più brillante, e quello riservato al latte, la cui caseina serviva a fissare i colori sulla tela”. Tommaso, detto Sisino, fu giornalista e critico d’arte per il quotidiano “La Nazione”. Oggi non c’è più, ma restano i suoi ricordi, scritti sul catalogo di una mostra d’arte che egli stesso organizzò a Firenze nel 1965 intitolata Continuità dell’arte in Abruzzo: venti dipinti di Gaetano Paloscia e venti sculture di Vicentino Michetti.
“Mio padre –scrive Tommaso, che senza dubbio più degli altri ereditò il senso artistico paterno– dopo essersi nutrito di pittura alla scuola napoletana, aveva finito col piantar le tende a Francavilla a Mare dove aveva conosciuto e sposato mia madre, Vincenza Tucci. Si allontanava per lunghi periodi, sempre per ragioni di lavoro, ma neanche a casa si concedeva un attimo di riposo perché lo vedevo dipingere senza sosta quadri di fiori e di frutta o di papaveri e grano insieme. Almeno due volte alla settimana don Ciccillo veniva a trovarlo per vederlo dipingere e per parlargli del mondo che andava inesorabilmente a rotoli: di quel mondo che era rimasto pieno di ricordi dannunziani, di divertite estrosità di Barbella o di melodie incancellabili travasate nel suo animo dalla genialità dell’amico Tosti. Mio padre credeva nella sua pittura, così come era convinto di trovare la felicità nella famiglia numerosa. Una felicità che non riuscì ad acciuffare nemmeno dopo aver messo al mondo dodici figli, tre dei quali morti subito dopo la nascita, a causa dei tempi mutati in peggio. Lo ricordo sempre affaccendato a preparare la tavolozza delle tempere. E l’odore del suo toscano, misto a quello delle cicche, e del latte andato a male, e dei tuorli d’uovo avanzati dal giorno prima nel fondo di un bicchiere sporco di colori”.
Gaetano Paloscia, il pittore dei fiori e della natura, era nato a Terlizzi di Bari nel 1871. Aveva un legame stretto d’amicizia con Francesco Paolo Michetti, più grande di lui di circa vent’anni, che intorno al 1900 lo convinse a trasferirsi a Francavilla, affidandogli un bel lavoro: la decorazione del salone del circolo cittadino “La Sirena”, di recente costruzione. I due si erano conosciuti a Napoli, dove Paloscia era andato a studiare a soli quindici anni in quell’Accademia delle Belle Arti dove si respirava aria di grande rinnovamento artistico-culturale con docenti del calibro di Domenico Morelli, Filippo Palizzi, Edoardo Dalbono. Don Ciccillo aveva proposto quindi per l’impresa il suo “giovane amico” conosciuto a Napoli, ritenendolo “un pittore moderno e già affermatosi nel campo del floreale, sicuramente in grado di rispondere in pieno alle aspirazioni dei suoi concittadini”. Purtroppo di quelle decorazioni non è rimasto nulla a causa dei bombardamenti che hanno distrutto il palazzo, ma dell’arte di Paloscia il segno è rimasto, eccome. Gaetano Paloscia dipingeva rossi papaveri delle terre d’Olanda, dalie, rose, crisantemi, garofani, siepi di sambuco con la tipica lupinella rosso porpora o rosa, campi con spighe di grano tipiche dei paesaggi abruzzesi. Fiori spesso intrecciati a grappoli d’uva o ad arance, a limoni, ad albicocche, a pesche vellutate, a mele e melagrane. Tralci di rami con uccellini e farfalle variopinte che sembrano staccarsi dalla tela e prendere il volo. Dalla sua tavolozza nasceva dunque una tale sinfonia di colori che gli fruttò il grado d’artista d’avanguardia e i proprietari delle ville patrizie, soprattutto in Campania, Puglia, Lazio, Toscana e Abruzzo, si contendevano quel talento, incaricandolo di dipingere le mura e i soffitti delle loro case. Lo chiamò anche l’editore abruzzese Nicola De Arcangelis per decorare le sale dello Stabilimento tipografico editoriale di Casalbordino, che raccolse tante firme del fermento culturale dell’epoca.
A Pescara è rimasta una notevole testimonianza della sua arte nella villa di proprietà dell’architetto Anita Boccuccia, sul lungomare della pineta dannunziana, ma anche a villa Perenich di fronte al Convento Michetti, e sui muri del Circolo Aternino, accanto a Casa d’Annunzio dove attualmente è conservato il quadro di una delle cosiddette “siepi dannunziane” ispirate alla campagna abruzzese e che fino alla data del terremoto fu conservato nel Museo dell’Aquila, dono della moglie di Tommaso, Nara, e della figlia Simonetta. Anche nell’aula magna del Liceo Classico “G. d’Annunzio” di Pescara sono appese due tele di Paloscia, restaurate lo scorso anno e raffiguranti una fiori e l’altra papaveri e spighe. Ci ha pensato la preside, la professoressa Luciana Vecchi, appassionata custode d’arte e di cultura, che aveva notato le tele abbandonate e rovinate nella sala professori. In sintonia con il professor Centorame, docente di storia e filosofia nonché presidente della Fondazione Museo Michetti, e con il professor Benedicenti, docente di Storia dell’Arte, la preside ha cercato con successo i fondi per riportare alla loro bellezza originaria le tele. «Nelle siepi di Paloscia –spiega Benedicenti– c’è tutto lo spirito panico e la lirica dannunziana, che porta la sua arte ben oltre la semplice decorazione estetica: riesce con le sue rappresentazioni a raggiungere una sorta di fusione tra uomo e natura».
La pittura di Gaetano Paloscia, indicato oggi come uno degli artisti minori del Novecento, fu inserita nello stile Liberty o Floreale, una sorta allora di etichetta negativa per indicare la corrente italiana vicina all’Art Noveau, ma in effetti molti critici lo indicarono poi quale pittore dallo stile personale che ha raffigurato, con commossa partecipazione e senso del ritmo e del colore, la natura e i sapori d’Abruzzo. «Conobbe mia nonna Vincenza, detta Vincenzella, a Francavilla a Mare, se ne innamorò e ne chiese la mano» racconta la nipote Simonetta, figlia di Tommaso. «La sua famiglia si riteneva onorata che una personalità piuttosto famosa, e quindi anche abbiente, l’avesse chiesta in moglie. Pare invece che lei non ne volesse sapere, ma fu chiusa in camera sua, come si usava allora, finché non disse di sì. Comunque tanto male il matrimonio non pare sia stato: fu allietato dalla nascita di quattordici figli, anche se il numero esatto non è noto per l’alto tasso di aborti e di morti in età infantile. Di sicuro i figli vivi sono stati nove: Leonardo, detto Aldo, Mario, Giuseppe, Esterina, detta Rina, Maria Teresa, detta Sisuccia, Nino, Tommaso, detto Sisino, Jole e Sara». Sandro, noto commercialista pescarese figlio di Aldo, ha spesso tentato di ricostruire l’albero genealogico della famiglia cercando le numerose, quanto sconosciute ai più, tracce della vita del nonno che si suppone abbia avuto fratelli, forse anch’essi artisti ma meno noti. Da grande appassionato di fotografia ha anche spesso viaggiato per immortalare le opere di Gaetano con il flash.
A ricordare Paloscia è anche Letizia, oggi lucida ottantottenne, figlia della sorella di Vincenzella: «Zio Gaetano era buonissimo, dolce e affettuoso. Io ero ammaliata dalla sua pittura. Andavo spesso nella sua casuccia vicino al mare e alla villetta di Francavilla. Mi mettevo lì, a guardare, mentre dipingeva. Sulle pareti aveva appeso tante farfalle, enormi e piccole, con le ali di tutti i colori. Allora avevo tre anni. Lui sorrideva guardandomi, mentre io lo scrutavo curiosa quando appoggiava il braccio su un bastone di legno messo orizzontale per tenere fermo il polso e le dita col pennello». Gaetano viveva vendendo quadri, oggi sparsi per il mondo, persino in America. Li utilizzava anche per barattare vestiti dall’amico sarto Urbini che a volte gli diceva sorridendo “Gaetà, m’ serv li sold p’accattà lù pane” come racconta il nipote Leonardo, cardiologo pescarese, figlio di Nino costretto giovane ad arruolarsi per aiutare il padre nella conduzione economica della famiglia. «Si narra che a Vincenzella vennero i capelli tutti bianchi quando aprì la porta di casa e rivide dopo tanti anni di guerra mio padre Nino tornato in occasione della morte del nonno, nel 1941». Da Francavilla poi Paloscia si trasferì a Pescara dove trascorse gli ultimi dieci anni di vita vendendo i suoi quadri a 100 lire. Li vendeva anche all’amico Arturo D’Alessandro, dell’omonima storica pasticceria sita a quei tempi a Palazzo Imperato. «Mio padre gli voleva bene e comprava volentieri i suoi quadri così allegri e pieni di luce» ricorda il figlio dell’imprenditore. Paloscia ne dipingeva uno e poi se lo metteva sottobraccio, andando in giro a cercare un compratore. Arturo, all’ennesima richiesta, gli diceva sorridendo “ma che devo fare la collezione con le tue opere?” soprattutto quando gli proponeva i quadri più grandi, per i quali l’artista chiedeva un prezzo maggiore, 150 lire. Soldi per sfamare tutti quei figli, che lo ricordano come un padre sempre in partenza per ragioni di lavoro.
Nonostante la guerra molte delle sue creazioni si possono ancora ammirare. È ancora intatta una ricca decorazione floreale con le Quattro Stagioni, realizzata da Paloscia su carta e incollata alle pareti di Palazzo Tibaldi, nel Comune di SS. Cosma e Damiano, in provincia di Latina. L’artista fu spesso incaricato anche da enti pubblici di eseguire opere da regalare a personaggi illustri ospiti del governo italiano, fu anche prescelto per decorare le pareti della “sala delegati esteri” del Ministero dell’Economia Nazionale con un’allegoria floreale delle regioni d’Italia. Persino il re Zogu d’Albania gli commissionò la decorazione della reggia di Scutari, cittadina ricca di cultura detta oggi la “Firenze dei Balcani”, che gli fruttò risonanza internazionale. Ma Gaetano Paloscia usava il suo magico pennello anche per esprimere il suo affetto e, sapendo di avere quella grande dote, aveva dipinto con tralci di fiori anche scialli di seta per le sue figlie e per l’amata moglie, e poi coperte e lenzuolini per i neonati della famiglia. Amava dipingere, e rinnovare con i pennelli la gioia di quel prodigio della natura di cui parlava don Ciccillo. Pennelli di tutti i colori che ancora oggi spiccano sulla sua lapide, a Francavilla, disposti con cura sulla tavolozza marmorea del pittore che come pochi è riuscito a catturare le sfumature del verde Abruzzo.