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Pasquale De Antonis, la memoria in fotogrammi

L’amicizia con Flaiano, l’amore per la fotografia, lo studio a Roma in Piazza di Spagna, la vecchia Pescara. Il grande fotografo abruzzese raccconta la sua lunga vita. n un racconto scritto da Ennio Flaiano tra il 1942 e il 43, “Le fotografie”, l’autore abruzzese narra il suo indolente trascorrere intere giornate nello studio pescarese di un suo amico fotografo: Pasqualino.

Siamo nel ‘38, ed un giorno i due si ritrovano in una bolsa e strampalata festa provinciale del “regime” a cui Pasqualino è stato invitato per immortalarne le solenni fasi, e maggiormente, gli ospiti più eccellenti: il prefetto ed il segretario provinciale con le rispettive mogli. Un quartetto rigorosamente “in divisa” e ridicolo che Pasqualino non perde occasione per sbeffeggiare ulteriormente, facendo assumere ai quattro, fino allo sfinimento, e davanti al nascosto e complice divertimento dell’amico scrittore, le pose più svariate malgrado la sua Leica fosse priva di pellicola.

Da allora sono passati decenni. Il tempo fortunatamente s’è portato via quel “regime”, ma purtroppo anche il grande scrittore pescarese. Pasqualino, invece –per quanto ripensando a tutto questo possa sembrarmi quasi incredibile– è appena entrato nella mia macchina. Ha uno sguardo sereno, simile all’aria di questo mattino di fine estate, che colma la mia leggera apprensione. Infatti non è soltanto un personaggio flaianeo in carne ed ossa chi mi è a fianco, ma un distinto e gioviale signore di 84 anni, un “grande” della fotografia: Pasquale De Antonis.

Sono venuto a prenderlo nella sua casa di Pescara dove trascorre le vacanze, per vedere con lui la sua straordinaria raccolta di fotografie della vecchia Pescara (in parte pubblicata in un bellissimo e introvabile libro della Caripe) attualmente custodita nel Museo delle genti d’Abruzzo nella vecchia via delle Caserme. Siamo arrivati, e la direttrice ci accoglie, o meglio accoglie soprattutto lui, De Antonis, con grande rispetto e cordialità. Seduti davanti ad un tavolino, lui inizia a sfogliare, a mostrarmi l’affascinante teoria delle immagini del pescarese tempo che fu: il varo di due barche da pesca con la data 1883, la Piazza Garibaldi con l’Arco di Portanuova nel 1870, lo stesso Arco visto più da vicino: ci soffermiamo su questa foto.

In primo piano è praticamente campagna, si scorgono contadini che col bestiame si accingono ad attraversare l’Arco, l’inizio della città vera: Piazza Garibaldi e l’attuale viale D’Annunzio… «Quest’arco –mi spiega De Antonis– univa il vecchio campanile di S. Cetteo con un altro campanile, probabilmente era questo l’ingresso a sud dell’antica Porta nuova: una singolare costruzione ottagonale del Rinascimento forse edificata sui ruderi di un tempio romano…». Oggi ovviamente non esiste più niente, sicché ho una sorta di spaesamento nel sovrapporre queste fantasmatiche visioni agli spazi della città che oggi tutti conosciamo. «Queste non le ho scattate io –continua– le ho ritrovate per la mia mostra del ‘37 Pescara nelle novelle della Pescara».

Le foto proseguono, quelle scattate da lui stavolta: gl’interni di casa D’Annunzio prima del restauro, ricchi di oggetti dispersi con la guerra, l’immagine della vecchia chiesa di S. Cetteo… sono davanti ad un vero e proprio pozzo delle meraviglie, e non so più bene se privilegiare lo sguardo o l’udito, dato che anche ogni commento di De Antonis è un’autentica rivelazione, così come il racconto della sua intensissima vita malgrado in lui ci sia un certo riserbo. Nei suoi occhi neri, vivissimi, ho l’impressione di scorgere i ricordi, il passato, come qualcosa di ancora palpitante e fortemente vicino.

Così cerco di rompere quel legittimo imbarazzo con l’occasione che mi porge un’altra foto: il vecchio Corso Manthonè con sulla sinistra il forno del nonno di Flaiano e, più oltre, Casa D’Annunzio. «Flaiano –dice–l’ho conosciuto da ragazzo. Che dirti di lui… non c’era una caratteristica saliente per me, c’era una totale amicizia. Cosa c’è di più bello di un’amicizia?». Il suo sguardo è colmo di tenerezza. Riprende: «Posso dirti che quanto accade nelle fotografie è realmente avvenuto, e un’altra cosa: mi disturba questo continuo parlare di Flaiano come fosse una specie di barzellettaio: nessuno perde l’occasione per raccontare una battuta. Ma lui era un uomo, uno scrittore straordinario». Concordo pienamente.

Dal suo infervorarsi il racconto della sua vita prende corpo con naturalezza. «Nel ‘34 aprii lo studio fotografico qui, a Corso Umberto. Nello spazio di 50 metri c’erano 5 fotografi. Io avevo già partecipato alla I Mostra Sindacale dell’Aranciera di Villa Borghese e alla I Biennale di Arte Fotografica di Roma. Poi il mio amore per il cinema mi portò a fare il concorso come operatore al Centro Sperimentale di Cinematografia: c’erano con me Germi, Lattuada, Pannunzio. Intanto, facendo sempre la spola tra Roma e Pescara, avevo partecipato alla Triennale Fotografica di Milano ed ai Saloni Internazionali di Parigi e Vienna. Solo nel ‘40 mi trasferii definitivamente a Roma ed aprii il mio studio di Piazza di Spagna dove sono stato fino al ‘90, pochi anni fa».

Un cinquantennio. Com’è possibile riassumerne la ricca storia? Invece i ricordi affiorano simili alle fotografie che poco prima mi mostrava come un prestigiatore. Mi parla dei suoi amici pittori Afro, Mirko, Cagli, di Savinio e della ritrosìa di De Chirico. Di Sibilla Aleramo… Gli chiedo a chi è legato il suo ricordo maggiore. «A Corrado Alvaro. Me lo presentò un amico. Lui venne due volte in Abruzzo. Prima nel ‘37, raccontandoci dopo un lungo viaggio la differenza tra la Russia e lo spaventoso orrore della Germania. Poi arrivò nel ‘39 per intervistare un mago a Guardiagrele, dove s’imbatté nel funerale di una bambina che poi descrisse in Itinerari Italiani». Quando gli chiedo cosa lo ha condotto verso la fotografia e avanzo l’ipotesi di quest’arte come il desiderio di fermare il tempo m’interrompe subito: «Non c’entra niente il tempo.

Queste cose sono troppo intellettuali per me. Mi ha spinto solo la curiosità verso le cose e le persone, comunicare con loro. Sono un ritrattista, legato alla tradizione della pittura classica. E non ho mai amato le combinazioni: per me esiste il semplice passaggio dal negativo alla stampa. Inoltre la mia grande passione è il dagherrotipo, dove non c’è negativo. Un lavoro difficilissimo…». Salutiamo la gentile direttrice. S’è fatto tardi, ma non tanto per fare quattro passi fino a Piazza Garibaldi. De Antonis mi spiega come la curiosità lo portò a mischiarsi tra i pellegrini che andavano al Santuario di S. Gabriele per il tradizionale “voto” (“c’era una donna che puliva il pavimento finché il pellegrino andava avanti con la lingua”), e poi i suoi servizi sulla festa delle verginelle a Rapino, il “Lupo” di Pretoro, il Venerdì Santo di Spoltore. Mentre ci aggiriamo tra gli antichi vicoli mi punta i suoi occhi tanto vispi quanto rassicuranti.

Dice con compiaciuta allegria: «Vuoi chiedermi come vedo ora Pescara, vero?». Lo ammetto divertito. «Allora pensa: dal ponte fino al teatro Michetti c’erano solo 3 industrie. Suonavano le sirene e dallo Stabilimento “Blu Oltremare” uscivano gli operai con tute mani facce scarpe blu. Tutto oltremare! Un vero spettacolo… ora tutto è solo il piacere di un ricordo. Mi terrorizza un po’, dopo la stazione di Chieti, vedere adesso tante industrie, le strade sopra al ponte come serpenti… niente ha più a che vedere con la Pescara che conoscevo. Sto qui e la rivedo più com’era che com’è adesso». In macchina, riaccompagnandolo, mi parla del cambiamento di studio a Roma, delle modificate abitudini («È difficile trovare ora qualcosa che risvegli la curiosità»).

Ma nel suo raccontare il passato e la pigrizia che l’assale oggi non c’è niente di lamentoso. Semmai una velata malinconia, mista alla forza di chi, è il caso di dire, ha visto proprio tutto. Per questa dignità e spontaneità con cui mi parla quasi mi commuove, e mi dispiace salutarlo. Se ne accorge, e aprendo lo sportello sotto casa sua, col tono di un buon vecchio zio mi dice sorridendo: «Ci rivedremo prestissimo, ho tante altre foto a Roma!… Ma vuoi sapere qual è stata la mia prima fotografia? Bene: a Teramo, dove sono nato, ho fotografato dalla finestra di casa il campanile del Duomo che segnava le 8 del mattino. Avevo 14 anni…». Non so perché ma non voglio chiedergli che fine abbia fatto questa foto.

Dico solo, mentre mi stringe la mano: «Mi ha fatto un immenso piacere conoscerla, De Antonis. La ringrazio molto». Con l’aspetto un po’ baldanzoso da vecchio ragazzo lo vedo avviarsi verso il portone. Mi torna in mente “Pasqualino”. Rivedo le preziose foto che mi ha lasciato per Vario. Sono così suggestive che non hanno bisogno di commenti: è sicuramente banale dirlo, ma parlano da sole. E continuano davvero a parlarmi, a confortarmi, mentre tornando verso il centro, quasi non riconoscessi più questa città, sento una più grande banalità circondare le strade, le piazze, i moderni palazzi, malgrado il meraviglioso colore, a Pescara, della luce di fine estate.

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