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Lucio Rosato

LUCIO ROSATO

L’architetto artista che non si occupa dei palazzi ma delle relazioni tra gli oggetti urbani

Labirinto di narciso: Narciso e Minotauro, 2003

La sua casa è in quel luogo al confine tra l’arte e l’architettura. I suoi interessi si concentrano proprio negli spazi vuoti tra un manufatto e l’altro, ovvero sulle relazioni tra gli edifici, sull’ambiente, sul contesto in cui vivono. Lucio Rosato vive oltre le etichette, aldilà delle convenzioni, fuori dagli schemi, come è lecito aspettarsi dal figlio di due nomi illustri della poesia italiana (Giuseppe Rosato e Tonia Giansante).

Qual è la tua formazione artistica?

«Uno dei miei maestri è Ettore Spalletti, ma non mi definirei artista. Tanto più perché non credo nell’arte».

Cioè?

«L’arte, forse come l’identità, è un’invenzione della mente: una costruzione preromantica, che continuiamo ad idolatrare nella nostra condizione post-romantica. “Prima” non esisteva. Parliamo di arte greca, arte romana, ma allora non c’erano valori attribuiti; siamo noi a darli ad alcune cose oggi. La bellezza di un’opera di Leonardo, ad esempio, sta nel fatto che quell’opera aveva un significato, nel senso di funzione e ragione, in quel dato momento storico, e siccome era vera in quel momento continua ad esserlo anche oggi. Ma non esisteva la figura dell’artista, e anche nel mio caso è un termine che non uso mai. Io mi occupo di “altre architetture”».

In che senso?

«Nel senso che quella che noi definiamo “arte” si occupa comunque di spazio e tempo, di rapporto uomo-natura, uomo e altra natura (artificio), di contesto, ed è per tanto riconducibile alle ricerche del fare architettura. È, insomma, un problema di ambiti e di relazioni, che sono le cose che da sempre mi interessano. E l’altra architettura non è necessariamente prontamente funzionale».

Spiegati meglio.

«Un architetto è colui che in genere costruisce una casa, rispettando lo scopo per cui viene costruita, cioè la sua ragione. Ma questa ragione viene ogni giorno di più tradita prestando sempre maggiore attenzione agli aspetti speculativi del mercato e del formalismo tecnologico; “altra architettura” significa provare ad occuparsi di altre funzionalità necessarie allo spirito nel rapporto, che è della vera architettura, tra etica ed estetica. Andando ancora oltre, mi piacerebbe occuparmi degli intervalli, ovvero dei vuoti che intercorrono tra un manufatto e un altro, delle relazioni tra le case come tra le cose, tra gli uomini. E se ci pensi è proprio quel vuoto che definisce gli ambiti, che costruisce un nuovo equilibrio, dandoti la possibilità di modificare la tua condizione di uomo e il rapporto con la società. In un certo senso, è il compito affidato all’arte, quell’arte che io definisco “altra architettura”; e la sua funzione è di cambiare la concezione delle cose, se stessi e il mondo».

Cosa pensi di quegli architetti che oggi sono considerati “artisti”?

«Che spesso cadono nel formalismo autoreferenziale. L’architettura si costruisce attraverso il rapporto tra forma e contenuto, definendo nuovi e provvisori equilibri che offrono la possibilità alla gente di vivere meglio. È invece sempre più la forma a prendere il sopravvento, col risultato che, come nella stazione dei pompieri di Weil am Rhein in Germania progettata da Zaha Hadid, non riesci a chiudere la porta del bagno senza farti male; ma è l’intera costruzione in questo caso a non rispondere alla ragione del suo costruirsi, tanto che è stata subito trasformata in un discutibile padiglione espositivo. Questa esaltazione della forma fa perdere significato all’architettura. Oggi non abbiamo veramente bisogno di costruire il nuovo, se fatto in questi termini. Semmai ci sarebbe bisogno di demolizioni».

Cosa che a Pescara sta già avvenendo: sono numerosi gli edifici abbattuti, anche sollevando contestazioni da parte della cittadinanza. Quanto è importante, per una città come Pescara, conservare una memoria?

«Credo che il caso più eclatante sia quello dell’ex centrale del latte, un edificio che da molti veniva considerato di importanza storica. Ma come ho già detto non credo nei valori attribuiti, e in più quello era un edificio davvero senza valore. Oggi si tende a conservare, ma la città si è sempre modificata su se stessa, costruendo di volta in volta ciò che serviva in quel preciso momento. La mancanza, a Pescara, di edifici storici, avrebbe potuto rappresentare un vantaggio, e far vivere la città di espressioni del contemporaneo. Se la città si fosse costruita come una città moderna, oggi nessuno si porrebbe il problema della mancanza di memoria storica. Il dramma è che Pescara è stata costruita male, aveva un piano che non è stato rispettato, e oggi si continuano a riempire gli interstizi costruendo palazzi anche all’interno degli isolati esistenti. È avvilente pensare che qualcuno si preoccupa di salvaguardare l’ex centrale del latte mentre intorno a noi accade dell’incredibile: penso alle torri Camuzzi, concepite come silos parcheggio alle porte del centro città, che grazie ad un accordo di programma (pericoloso strumento urbanistico quasi sempre a servizio della speculazione) hanno subito un cambio di destinazione d’uso in uffici e appartamenti di prestigio. Sarei ben lieto di vedere a Pescara abbattere un palazzo per lasciare, al suo posto, uno spazio vuoto».


Sfoglia lo Speciale VarioART 2011 su Lucio Rosato

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