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Obiettivo creatività

Mario Di Paolo

Obiettivo creatività

I suoi scatti girano il mondo. Ama il buon cibo, l’arte e il design, e preferisce
stare dietro le quinte. Ritratto di un giovane fotografo figlio d’arte che
usa le nuove tecnologie con l’occhio rivolto alla qualità e alla ricerca

di Fabrizio Gentile

Mario Di PaoloSi è nutrito di pellicole e macchinette fotografiche fin da bambino, nello studio di suo padre Gino che alla fine degli anni Sessanta viene chiamato da Gabriele Pomilio a far parte dello staff di quella che, allora, era una delle poche grandi agenzie pubblicitarie italiane. E soprattutto respira arte, dal momento che il padre, oltre che lavorare per la pubblicità nel settore food e commerciale, autonomamente svolge lavori per artisti di livello nazionale e internazionale. Oggi Mario Di Paolo, trentacinque anni e due figlie, è un affermato fotografo tra i più richiesti nell’ambiente dell’arte contemporanea; si è costruito uno studio-fortezza alle porte di Pescara da lui stesso progettato e nel quale ha concentrato tutto ciò che lo appassiona: arte, architettura, design, e naturalmente fotografia. E cibo: a dora la buona cucina e il buon vino, e tra i suoi clienti ci sono le più grandi cantine abruzzesi, ma anche molte altre aziende del settore food, ovviamente non solo regionali. Opera in tutta Italia, e grazie ai lavori svolti con alcuni dei più grandi artisti internazionali le sue fotografie viaggiano anche oltreconfine. Non ama il protagonismo, il posto che si è scelto è dietro le quinte, dietro un obiettivo, a coordinare il lavoro per il quale è stato chiamato. Un lavoro che non consiste nel semplice scatto fotografico ma nell’entrare in comunione con il pensiero dell’artista, nel condividere la sua visione e nel cercare di riproporre nell’immagine le emozioni dell’opera. Un approccio basato su sensibilità e creatività unite a una indiscutibile padronanza tecnica, che lo ha fatto diventare uno dei più apprezzati fotografi d’arte italiani, con un “portafoglio clienti” che annovera nomi come Mario Airò, Ettore Spalletti, Joseph Kosuth, Daniele Puppi, Alberto Garutti, Carla Accardi, Gilberto Zorio, Michelangelo Pistoletto, Alfredo Pirri e molti altri.

Vieni da una famiglia di fotografi. Quanto conta avere il tuo cognome in questo lavoro?

Senz’altro aver vissuto nell’ambiente mi è stato d’aiuto: ho osservato e appreso tantissimo da mio padre, e se oggi sono in grado di lavorare con artisti e aziende di livello internazionale lo devo ai suoi insegnamenti. Ciononostante, lui –che conosceva l’ambiente e sapeva quanto fosse faticoso fare questo lavoro– ha cercato di dissuadermi dal seguire la sua strada, spingendomi a percorrerne una diversa. Per un certo periodo ho anche frequentato la facoltà di Lettere e filosofia, ma ho smesso a pochi esami dalla fine. Ho fatto l’istituto d’arte, mi piace la creatività tutta, e alla fine ho deciso cosa fare nella vita. Ma la mia strada l’ho costruita da solo, la maggior parte dei clienti che ho non li ho “ereditati”.

Hai a che fare con grandi aziende e grandi nomi dell’arte. È diverso, per te, lavorare con gli uni rispetto agli altri?

No, l’approccio è identico. E accetto il lavoro soltanto se sento una magia in quel che sto per fare. È importante che si stabilisca un rapporto speciale tra me e il committente, è quello che serve per ottenere un soddisfacente il risultato finale, che sia un’azienda o un artista non fa differenza. É questo che rende il mio lavoro bellissimo.

Hai tanti clienti. Possibile che tu riesca a stabilire questa relazione con tutti?

È capitato anche che non accadesse, e in quel caso non presento nemmeno il preventivo. Se non mi trovo bene con la persona che richiede le mie prestazioni preferisco rinunciare. Ma in genere il rapporto nasce, e in quel caso entra in gioco la mia personale sensibilità, che è ciò che fa la differenza tra un fotografo e un bravo fotografo, altrimenti a livello tecnico uno vale l’altro. Il valore aggiunto sta nella professionalità, che è data da un insieme di cose: sensibilità, appunto, creatività, umiltà e capacità di mettersi al servizio del committente per ottenere il miglior risultato possibile per lui. Nel caso degli artisti poi io dico sempre che la fotografia non è “mia”, ma dell’artista. Per esempio, recentemente sono stato con Mario Airò in Trentino, dove dovevo fotografare una sua opera che utilizza dei laser, in notturna. Le immagini sono bellissime, perché è l’opera ad essere straordinaria.

Quindi tendi a porti in una posizione di subalternità?

Credo che l’importante sia lavorare in sinergia per ottenere un risultato, che è l’obiettivo comune. Nel caso degli artisti ritengo che il mio apporto creativo sia importante per offrire all’artista il mezzo per realizzare ciò che desidera, magari allargando anche i suoi orizzonti. Sei o sette anni fa, per esempio, ebbi l’occasione di lavorare per la prima volta con Joseph Kosuth: lui non mi conosceva, ero stato chiamato dalla gallerista Benedetta Spalletti per fare le fotografie di una sua installazione. Era una situazione molto difficile, con dei neon neri su parete nera che avevano solo alcuni elementi che si illuminavano. Lui ha voluto conoscermi, parlarmi e vedere come lavoravo perché desiderava che utilizzassi il banco ottico; così mi sono presentato con armi e bagagli, tutta la mia attrezzatura: banco ottico, diversi flash, macchinette… e il mio primo dorso digitale Hasselblad. L’assistente di Kosuth, nel vederlo, impazzì dall’entusiasmo. Grazie a lui superai lo scetticismo di Kosuth e gli proposi di fare una prova col digitale. La sera ritoccai tutto il servizio, feci delle stampe e la mattina seguente gliele mostrai. Fu contentissimo. Da allora abbiamo un fantastico rapporto. Il mio lavoro consiste in questo: padroneggiare tecnicamente i vari mezzi che la tecnologia mi mette a disposizione per esprimere la mia creatività, individuare cosa sia meglio per valorizzare il lavoro dell’artista e soprattutto fargli capire che è possibile.

Ma non ti limiti a scattare delle foto: il tuo ruolo è più ampio.

È vero. Oggi il fotografo deve ridisegnare il suo ruolo, allargarlo, diventare una specie di art director che coordina il lavoro di un gruppo. Lo scatto fotografico è l’ultima cosa, benché sia anche la più importante. Dodici anni fa ho messo su una mia agenzia, con la quale curo non solo la parte fotografica, ma anche tutta una serie di altre componenti del lavoro di comunicazione di un’azienda. E abbiamo clienti prestigiosi con i quali abbiamo conseguito risultati eccellenti. Abbiamo realizzato, ad esempio un grande quantitativo di etichette per vini, olio e altri prodotti. E la qualità di ciò che fai si misura poi dai risultati che l’azienda ottiene: quando realizzi un’etichetta e vedi che la vendita di quel prodotto aumenta da 50mila a 300mila bottiglie, vuol dire che hai lavorato bene. Naturalmente tutte le nostre esperienze entrano in gioco in ognuno degli aspetti del lavoro, e questa è quella che io chiamo creatività.

Spiegati meglio.

La creatività è, secondo me, un parco giochi nel quale si trovano tante giostre, che sono i mezzi che possiamo utilizzare per esprimerci, e il cui biglietto d’ingresso è costituito da tutte le nostre esperienze. Una fotografia, un’etichetta, una confezione o un depliant non sono il risultato di una sola competenza, ma di tutte le nostre esperienze visive e tecniche. È un approccio che, a quanto pare, dà risultati positivi, dato che i clienti aumentano e non mi sono mai fatto pubblicità. Pensa che il mio studio non ha neanche un’insegna, e che perfino il mio sito web è piuttosto scarno, malgrado abbia clienti in tutta Italia. Ma faccio fatica a mostrare quello che faccio, preferisco il passaparola.

Il tuo lavoro in cinque aggettivi.

Creativo, faticoso, soddisfacente, straordinario e coinvolgente. In una parola, unico.

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