Il jazz, la grande passione di Mazzocchetti.
«Sono decisamente un patito del jazz. Ricordo ancora con emozione la prima edizione di Pescara Jazz nel ’69 e, nel ‘73, il mare di gente del primo anno di Umbria Jazz».
Il suo jazzista perferito?
«È una scelta difficile ma dico Charlie Mingus».
Mingus l’arrabbiato, il jazzista che amava Schönberg e Ravel, il libertario detestato dai bianchi e trattato con diffidenza dai neri perché meticcio.
«Il suo uso innovativo del contrabbasso, non più suonato solo come strumento d’accompagnamento, la sua capacità di fare dell’impegno civile un elemento propulsivo per comporre musica jazz di grande complessità e assoluta qualità musicale, fanno di lui un grande musicista in senso assoluto, oltre ogni distinzione di genere».
E della musica cosiddetta “alta”, “colta”, l’opera eccetera, che ne dice? Le piace?
«Premesso che per me la musica è solo buona o cattiva non alta o bassa, io sono un melomane. L’opera mi piace da morire».
Preferenze?
«Verdi, Puccini».
E Mozart?
«Be’, è come dire che da appassionato di calcio mi piace Maradona.
Banale, no?»
Sera dell’ultima domenica dell’ultimo agosto, Teatro Comunale di Città Sant’Angelo. In programma un concerto di Germano Mazzocchetti e del suo Ensemble. La burrasca d’acqua e di vento del pomeriggio ha indotto gli organizzatori a spostare il concerto dall’ampio Giardino delle Clarisse al riparo del piccolo teatro cittadino. È così, sono solo 198 (tanti sono i posti a sedere) i fortunati che possono godersi e applaudire le splendide esecuzioni del gruppo che da anni accompagna Mazzocchetti nelle sue esibizioni dal vivo. Composizioni vecchie e nuove, tutte del maestro angolano, presente in scena con la sua amatissima fisarmonica, strumento che suonato da lui ribalta in finezza la rusticità della sua immagine. Nei brani eseguiti si colgono fraseggi colti e cantilene popolari, sonorità etniche mediterranee e cadenze da singspiel novecentesco, incursioni jazzistiche e sobrie melodie, di vena malinconica anche quando gaie. Eppure, la complessa e raffinata architettura di citazioni, echi, rinvii a linguaggi e stili musicali tanto diversi, confluisce, nei singoli brani, in esiti totalmente altri, originali, freschi, e tutti con una identità stilistica riconoscibile e forte. Gran bella musica, maestro Mazzocchetti.
Eppure, bizzarria d’un destino artistico, la “chiamata”, la scoperta della sua vocazione di musicista, per lui era precocemente arrivata, pensa un po’, nel corso della burrascosa Canzonissima del ’62 quando Dario Fo e Franca Rame furono buttati fuori dopo sette puntate per uno sketch sulle morti bianche nell’edilizia giudicato “scandaloso” dai dirigenti Rai. Ma non fu la satira impegnata del futuro premio Nobel a colpire il decenne Mazzocchetti.
«Furono le musiche scritte per Fo da Fiorenzo Carpi, il grande compositore, il musicista preferito da Strehler, a impressionarmi».
All’epoca, il giovanissimo Germano studiava musica e imparava a suonare la fisarmonica con tastiera armonica (quella “a bottoni”, per intenderci).
«Non avevo certo maturità di ascolto, a quell’età, ma le musiche di Carpi, così diverse e singolari nella loro composizione, mi affascinarono. Fu allora che cominciai a pensare che mi sarebbe piaciuto fare quello che faceva lui, cioè comporre musica per la scena, fosse teatrale, televisiva o cinematografica».
L’ha poi conosciuto di persona, Carpi?
«Sì, nel ’91. Il critico teatrale Rodolfo Di Giammarco organizzò una serata sulle musiche di scena al teatro Parioli invitando Fiorenzo Carpi, Nicola Piovani e me. L’accostamento a quei due grandi compositori mi sembrò una consacrazione, fu come ricevere la laurea di musicista. Carpi l’ho conosciuto quella sera, e da allora ci siamo incontrati spesso fino alla sua scomparsa nel ‘97».
Com’era, di persona?
«Perfettamente equivalente alla sua musica: essenziale, senza fronzoli, schivo, e nello stesso tempo dotato di grande umanità e profondità di pensiero».
Vittorio Gassman, Egisto Marcucci, Luigi Squarzina, Walter Pagliaro, Glauco Mauri, Beppe Navello, Vittorio Franceschi, Fabio Grossi, Massimo Venturiello, Alessandro D’Alatri, Armando Pugliese, Luca Zingaretti, Arturo Brachetti. È l’elenco, certamente incompleto, di uomini di teatro per cui ha scritto musiche di scena. Eppure, un nome, di sicuro, manca. Il più importante per lei, credo…
«Già, Antonio Calenda. È lui che mi diede la mia prima, grande occasione, chiedendomi di scrivere alcuni brani per la “Rappresentazione della passione” con Elsa Merlini, prodotto dal Teatro Stabile dell’Aquila nel 1978».
Da allora iniziò un lunghissimo sodalizio...
«Che dura tutt’ora».
Conoscendo un po’ Calenda, la sua profonda cultura teatrale, il suo rigore, il suo essere regista esigente e intransigente, penso che la durata e la solidità del vostro matrimonio artistico sia per lei un implicito, grande riconoscimento del suo valore di musicista…
«Non sta a me dirlo, ma penso di sì. E comunque, non ho alcun dubbio che Calenda stimi il mio lavoro di musicista. Non è proprio il tipo da continuare per tanti anni una collaborazione che non lo convinca».
Del resto, non sono certo i riconoscimenti a mancare al maestro Mazzocchetti. Ha vinto i maggiori premi teatrali italiani: nel 2003, 2005 e 2009 “Gli Olimpici - Oscar del Teatro” come miglior autore di musiche di scena; nel 2005 il Premio Scanno, nel 2006 il Premio Flaiano per le musiche di scena e nel 2009 il RomaFictionFest per la migliore colonna sonora. Quest’anno ha ricevuto il premio “Le maschere del teatro italiano” per le musiche dello spettacolo Le allegre comari di Windsor.
Lei ha lavorato anche per il cinema, scrivendo le musiche del Viaggio della sposa di Sergio Rubini, e per la televisione, come autore delle musiche della serie “Carabinieri”…
«Meno male che ho lavorato per la televisione…»
Perché?
«Intanto è stata un’esperienza professionale molto interessante. E poi, grazie alle repliche, ho tirato su qualche euro in più del solito. Sa, con il teatro non è che si guadagni granché. È un po’ di anni che le repliche sono sempre di meno e con i diritti Siae non ci si arricchisce di certo».
Con la tv, invece, è diventato ricco?
«Ricco? Diciamo che non ho la vocazione né la capacità di diventarlo. Ma va bene così, soprattutto se mi guardo intorno».
C’è un regista con il quale si rammarica di non avere avuto l’opportunità di lavorare?
«Sì, Giorgio Strehler».
Da quasi trent’anni lei vive stabilmente a Roma. Come si trova?
«Bene. È una città incasinata ma anche vivace, ricca di eventi culturali interessanti. Da quando c’è il Parco della Musica, ogni sera c’è la possibilità di assistere a qualcosa di interessante».
Lei torna spesso a Città Sant’Angelo. La trova diversa rispetto ai suoi anni giovanili?
«Ovviamente».
Qual è il cambiamento che più la colpisce?
«Le sembrerà una stupidaggine ma mi dà malinconia vedere poche persone in giro. Io ricordo una Città Sant’Angelo, come dire, “gremita”, le strade piene di gente. Comunque, è sempre un bellissimo paese. Qui ho ancora tanti amici, mia madre, mio fratello e la sua famiglia. Torno sempre molto volentieri».
Lei si è mai sposato?
«No, sono single».