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Ermando Di Quinzio: cronaca di una luce cercata

Ermando Di Quinzio: cronaca di una luce cercata Foto Di Quinzio
La luce. Sì, la luce è sempre stata la sua ossessione. Nel senso che se non c’era quella giusta per lui, lo scatto era meglio non farlo perché tanto poi lo avrebbe scartato. Allora meglio non perdere tempo e cercare la luce giusta: cambiare posizione, cambiare prospettiva, cercare l’angolo, cercare la sua luce. Qualunque fosse il soggetto da fotografare: un corpo dilaniato dalle pallottole, un calciatore che alza un trofeo, un tuffatore che si libra nell’aria prima di toccare l’acqua, un vecchio presidente della Repubblica che piange composto davanti a delle bare.
La luce era tutto: e la sua luce ha scandito per decenni la sua cronaca. Perché la sua cronaca è sempre stata diversa da quella di altri pur bravi e appassionati fotoreporter. Tra tutte, tra tante, le sue foto, le foto scattate da Ermando Di Quinzio le ho sempre riconosciute. Sarà per la consuetudine che avevo al suo modo di lavorare (cominciammo assieme tanti anni fa, in provincia, a fare cronaca: eravamo poco più che ragazzi), sarà perchè avevo capito che le sue foto erano quelle con una luce speciale, sarà perché riuscivo a riconoscere un suo scatto tra cento foto sparse sulla scrivania, sarà perché sono sempre stato convinto che una grande foto valeva spesso più di un pezzo di cento righe. Non è buona regola per chi scrive per un giornale farlo in prima persona. Tutt’altro. I lettori mi perdoneranno se non rispetto una delle prime regole del giornalismo. Ma un motivo c’è: la storia professionale di Ermando Di Quinzio si intreccia inesorabilmente e per lunghi anni con la mia. Per cui quando parlo di Ermando spesso parlo di me. Quando racconto una sua esperienza, una sua storia, spesso quell’esperienza, quella storia l’ho vissuta anche io, con lui Sono gli anni del sangue e del terrore. Gli anni delle Brigate rosse, dei Nar. Delle stragi sui treni. Della banda della Magliana, della mafia, di Calvi, Sindona. A Roma sono gli anni delle uccisioni, tra tante, del colonnello Varisco, del giudice Minervini, del professor Bachelet, dei poliziotti in piazza Nicosia o in via Prati di Papa. Di Quinzio era sempre lì a raccontare la sua cronaca con i suoi obbiettivi, le sue prospettive, la sua luce. Sono centinaia le sue foto da prima pagina. Dorme assai poco in quegli anni, come dormiamo assai poco tutti al Messaggero e male anche. I terroristi colpiscono anche nostri compagni di lavoro. Cercano un cronista, uccidono un tipografo. Minacciano i giornalisti. Lasciano i loro volantini folli nei cestini della spazzatura sotto al giornale. La polizia piantona il giornale, scorta i cronisti. In quegli anni la città chiudeva all’imbrunire. Per strada poca gente, bar e locali vuoti, la parola terrore era nei fatti, nelle cose, nella vita di tutti. Di più in quella di chi per mestiere doveva informare e documentare. Di Quinzio c’era sempre quando scattava l’allarme e i suoi reportage raccontano quel terrore e quel sangue. Ma sempre con l’occhio di uno che non scattava per scattare e filare di corsa al giornale. No, le sue foto non erano, nonostante il clima e nonostante la tensione che spesso si creava anche tra polizia, carabinieri e cronisti e fotoreporter, foto tirate via: erano documenti su cui riflettere, su cui soffermarsi dieci secondi in più prima di iniziare la lettura dell’ ennesima cronaca dell’orrore. A fine dell’88 ci ritrovammo a lavorare di nuovo insieme, in Cronaca di Roma. Cinque anni e passa filati. Ci bastava uno sguardo per capirci, un telefonata: Ermando vai tu. Il suo imbarazzo a volte: ma c’è il collega prima di me. Lui rispettava le gerarchie, rispettava i turni. Io no, sapevo che se volevo il servizio giusto, la foto giusta, dovevo chiedere a lui. E così si faceva. In qualche modo avrei rimediato col collega e difatti, a detta di tutti, la mia Cronaca ha sempre funzionato alla grande. I rimpianti, mi dicono, sono stati tanti e sono durati a lungo. Il 1990 è l’anno dei Mondiali di calcio in Italia. Di Quinzio li ricorda così: “La foto, quella foto, di Matthaus e Bremhe che solleva la coppa del mondo è mia. Ma sono mie anche le foto delle semifinali, dei quarti, degli ottavi e delle qualificazioni dell’Italia. Una trottola avrebbe girato meno di me, tutti gli stadi mi hanno fatto fare, migliaia di chilometri”. Per quel mondiale Di Quinzio ricevette il premio Baia Chia. Un riconoscimento internazionale. Ricordi stupendi, gli chiedo? Certo, meravigliosi, risponde. Col rimpianto di non aver lavorato se non sporadicamente con e per una grande agenzia internazionale che lo mandasse in giro per il mondo, sugli scenari più crudi e più insidiosi delle grandi cronache. Ma rigorosamente senza flash e sempre alla ricerca della luce più giusta, la sua luce per la sua cronaca. Quella di un grande giornalista.
Giancarlo Minicucci

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