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Luciano D'Angelo Atlante Fotografico

Luciano D'Angelo Luciano D'Angelo
Tomboctou, Mali. La moschea di fango e paglia svetta sulle sabbie della magica città carovaniera. Sono anni sereni per l’antica regina del Sahara: la guerriglia tuareg e l’esercito maliano hanno trovato una strada per la pace, e il furore iconoclasta dei qaedisti che di questa meraviglia farà macerie è ancora lontano. Seduti nel piccolo cortile della moschea l’imam e alcuni shaiyk e ulema ci osservano, serissimi: l’aristocrazia religiosa della città. Chiediamo il permesso di fotografarli. Respinti. Pussa via. Sguardi di brace. Arriva Luciano. Si siede accanto a loro. Parla. Lo guardano. Gli sorridono. Tira fuori la fotocamera e quelli si offrono docili come un gruppo di modelle alla prima photo session. Lui scatta senza risparmio, fa quello che vuole. Poi li ringrazia e viene congedato dal più grato dei sorrisi. Noi neanche mezza foto. «Che bella situazione» dice Luciano. Varanasi, India.
Tra i ghat e il Gange la vita e la morte recitano il copione quotidiano, alternandosi sul palcoscenico di questa straordinaria commedia umana. Nella notte ardono le pire funerarie, i parenti dei defunti si aggirano tra ceneri e resti. Un dolore composto, una struggente amarezza. Turisti scattano foto, indifferenti ai sentimenti di chi se ne sta, muto, ai piedi delle pire. Luciano scivola oltre, la fotocamera chiusa. Rispunta mezz’ora dopo da una casupola, distante da quello spettacolo straniante. Con una foto straordinaria: un sadhu, o santone hindu nel linguaggio all inclusive, reso brillante nel suo pallore da una lievissima luce che scava il buio della casupola; lontani, attraverso una finestra, il fuoco e il fumo delle pire. Intatta la suggestione del momento, non prevaricato il dolore. Una scelta rispettosa, un colpo d’occhio geniale. «Che bella situazione», dice Luciano. Parco del Serengeti, Tanzania. Il furgoncino rimbalza sull’immensa pianura, il mondo attorno è solo gnu e zebre: sono tanti, più di un milione. E’ la grande migrazione: l’abnorme mandria si sposta alla ricerca di pascoli nutrienti tra i due settori dell’ecosistema, il Serengeti appunto e il Maasai-Mara, su in Kenya. Lungo il fiume Grumeti, frontiera tra i due settori, i coccodrilli a fauci aperte aspettano pazienti la carovana di carne fresca. Poi ci sono i leoni, clienti fiduciosi della stessa bottega. Elefanti si aggirano indifferenti tra predati e predatori. Elefanti. Un branco se ne sta ai bordi della pista, apparentemente placido. Luciano mette testa, braccia e fotocamera oltre il limite del finestrino e punta il mirino sull’occhio di un colosso. Quello se ne accorge, lo vede, lo guarda, lo punta. L’autista freme. Luciano mette a fuoco. L’elefante emette un barrito soffocato: è una dichiarazione di guerra. Ci sono i cuccioli, e quel colosso è la madre. «Andiamo», implora l’autista. Luciano non fa una piega. Lievitano le prime imprecazioni. Luciano aspetta. L’aria si fa pesante. Luciano finalmente scatta. «Via, via!». L’elefante carica. Il furgoncino parte a razzo, se su questa pista in salita si può parlare di partenza a razzo. Però basta per schivare il pachiderma infuriato. «Che bella situazione», dice Luciano. Chi fosse interessato ai commenti degli occupanti del furgoncino mi contatti in separata sede. Luciano d’Angelo è mio amico, si sarà capito: amico tra i più cari. Insieme abbiamo viaggiato tanto, ci siamo emozionati, abbiamo riso e ci siamo presi anche qualche spavento. Avremo altri viaggi, altre emozioni, altre risate. Altri spaventi, magari no: o forse sì. Siamo gente strana. Luciano d’Angelo è un fotografo. Un grande fotografo. Valutazione oggettiva, l’amicizia non c’entra. Parlano per lui le sue immagini su prestigiose riviste. E poi mostre, libri. Il suo lavoro è richiesto da editori, capiredattore, art director, organizzatori di manifestazioni importanti, insomma da quanti cercano nella fotografia bellezza, sorpresa, emozione, valore. L’inesauribile curiosità esalta la capacità del suo occhio nel captare le «belle situazioni», quando non nel crearle. Se qualcosa o qualcuno, o una luce particolare, attraggono la sua attenzione non c’è nulla che possa fermarlo: i brevi racconti che vi ho proposto ne sono testimonianza. Così come testimoniano di una umana sensibilità che gli consente di aprire la corazza anche del soggetto più diffidente che intercetti la traiettoria del suo occhio. Poche volte qualcuno gli ha opposto un «no», che io ricordi. Lui ha incassato con stile, ma poi è ritornato per vincere quella resistenza accettata ma non digerita. Sempre proponendosi con la sua umanità, il suo essere non solo una fotocamera e un pensiero invadente. Umanità che lo ha portato a pagare un pegno pesante, a Srebrenica: il dolore che impregna ogni zolla di una terra che sembra lontana e che invece è così vicina, giusto oltre l’Adriatico, il nostro mare, ha lasciato una traccia profonda nel fotografo chiamato a raccontare per immagini un presente che non sa, forse non può staccarsi da un passato recente e feroce. Si farebbe torto, però, a Luciano, nel definirlo un fotografo le cui capacità emergono essenzialmente nel viaggio, nel racconto di Paesi altri dal nostro. Certo, ha eletto il mondo a territorio di caccia, safari fotografico perenne, ma sa bene come cercare e proporre le fascinazioni della sua terra. Penso al reportage sugli ultimi carbonai, al viaggio lungo il Tirino, penso a come ha saputo catturare la luce della sua città, Pescara, luce tagliente e mutevole la cui particolarità è ben nota a chi ama la fotografia. Allenandosi nell’addomesticare e tradurre in colori inediti la luce della sua Pescara, Luciano ha coltivato una sensibilità artistica che lo ha portato a riconoscere lo straordinario in situazioni che pochi coglierebbero come «belle», nella sua tipica sintesi, in giro per il mondo. E ad insegnare generosamente qualcosa perfino a chi pratica la fotografia con qualche maldestrìa, consentendogli scatti imprevedibilmente felici: parlo di me, per esser chiari. Ma il mio mestiere è un altro, anche se a casa appendo alle pareti qualche motivo d’orgoglio fotografico. Grazie al maestro. Anzi, al Maestro, ça va sans dire.

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